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Детали релиза : I Pooh - Parsifal (1973/1987) [FLAC (tracks + .cue)]

AlbumI Pooh - Parsifal (1973/1987) [FLAC (tracks + .cue)]
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I Pooh - Parsifal (1973/1987) [FLAC (tracks + .cue)](кликните для просмотра полного изображения)
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Описание/Треклист
Artist: I Pooh
Album: Parsifal
Released: 1973/1987
Label: CGD Messaggerie Musicali S.p.A.; Warner Music Europe
Catalog #: 09031-70517-2 YS
Genre: Progressive Rock, Pop Rock, Vocal, Ballad
Country: Italy
Duration: 00:48:15

Tracklisting:

01. L'Anno, Il Posto, L'Ora... [6:48]
02. Solo Cari Ricordi [4:22]
03. Io E Te Per Altri Giorni [4:49]
04. La Locanda [4:35]
05. Lei E Lei [3:11]
06. Come Si Fa [3:52]
07. Infiniti Noi [6:18]
08. Dialoghi [4:27]
09. Parsifal [10:00]
Info
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Review written by hypnosphere boy for debaser.it (on 26 October 2006 in prime time)
Vote 5/5

Splendido. Monumentale. Minimalista. Epico. Emozionante come poche opere sanno essere. Suggestivo, evocativo e lirico nei momenti più "semplici" come nei più "impegnativi". Puro nella sua bellezza già da ora senza tempo.

"Parsifal", opera quarta dopo l'"Opera Prima", "Alessandra", "Un po' del nostro tempo migliore", presenta la band rimaneggiata nella formazione: non più Valerio Negrini alla batteria (subentra Stefano D'Orazio), non più Riccardo Fogli nel gruppo, dove aveva un sorta di "leadership" (in realtà tutti sono "frontmen" per l'alternanza al canto e i cori sul modello di certo rock britannico più o meno post-Beatles). Sinceramente (per chi scrive) difficile separare il livello del sentire da un esame più "razionale" del disco in questione. Sicuramente è un'opera estremamente ispirata, finora il più (musicalmente) impegnativo e ambizioso progetto del gruppo di Dody Battaglia, Red Canzian, Roby Facchinetti, Stefano d'Orazio.

Difficile in quanto suona come una sfida, un confronto con la corrente del rock "progressivo" (i leaders mondiali sono i Genesis), genere che nella sua denominazione include già l'idea di "apertura di orizzonti" di "guardare oltre" di "cambiamento" verso forme creative più "avanzate", etc; ambizioso perché dall'impegno e dalla cura perfezionistica che traspare in tutta l'opera si può inferire che la tensione lirica avvertibile è anche in parte il risultato della speranza di riuscire in tale connubio. Lo dico subito: non ha importanza (secondo il mio parere) stabilire se tale sperimentale tentativo di "internazionalizzazione" in senso stilistico e commerciale e "innovazione" in senso artistico e compositivo sia più o meno riuscita. Perché (sempre a mio parere) al di là del carattere fortemente innovativo di quest'album rispetto ai precedenti c'è qualcosa di più importante, non del tutto traducibile a parole.

I due singoli che fanno da apripista all'album sono già due canzoni di un livello straordinario, (e ciò non sempre accade, in quanto il 45 giri risponde maggiormente all'idea e alla pratica del "lancio" che avviene attraverso un scelta studiata di ciò che è più "semplice" e "diretto" senza tralasciare la qualità). "Io e Te per Altri Giorni", il primo dei due SP è una canzone orchestrale, ritmata secondo una cadenza narrativa, (cioè come se la sezione ritmica sottolineasse i vari passaggi della storia raccontata e delle emozioni vissute dal narratore) alterna due momenti simili, più "sostenuti" e veloci (quasi come una "fuga" strumentale) che ne racchiudono uno più riflessivo e sospeso: "tu distruggi un uomo che crede solo in sé, tutto questo io lo accetto, non si vive un'altra volta". Sofferta, a suo modo scabrosa, e realistica, questa canzone, con il suo articolato e complesso arrangiamento e le sue aperture orchestrali suona già come un brano epocale. "Infiniti Noi", il secondo dei brani tratti da questo album, è invece una canzone (con la C maiuscola) in cui dominano l'ampiezza e la lentezza: melodie dolcissime, un po' malinconiche, un po' sognanti un po' illuminate da un senso di speranza, priva di percussioni, con un'orchestra di 50 elementi, è "solo" una splendida canzone d'amore, quasi un inno, quasi la messa in musica di una "lettera a un'amata infinita", quasi una tenera ninna nanna consolatoria. Romantica e dolcissima, ("grida se l'amore grida forte, piangi quando sei messa d parte") sembra suonata e pensata apposta per lasciare fluire le emozioni pure senza altro commento ulteriore. Nell'album è posta quasi al termine. Segue "Dialoghi", quasi un interludio prima del finale teatrale.

La conclusione e il teorico climax, è appunto affidata alla lunghissima suìte progressive che dà il titolo al (concept-) album, "Parsifal". Termine più erudito di Percevàl, anche se più noto, è la narrazione per quadri della Leggenda del Sacro Graal, di origine "celtica" (e antichissima). Il tempo narrativo è scandito dagli accordi del pianoforte, sui quali si posano le parole dei vocalists che si alternano, mentre il tempo drammatico del racconto si dilata fino a tendere verso un ideale infinito (eterno cioè atemporale) il che è all'incirca il significato implicito all'idea stessa del progressive (progressione verso il superamento dell'orizzonte, oltre il confine della circonferenza, verso uno spazio e un tempo infiniti e quindi verso la dimensione della classicità atemporale). La lentezza e il carattere ascendente della struttura armonica scandisce i vari passaggi da una scena all'altra faendo di questo brano un'opera nell'opera: il cavaliere alla ricerca del Sacro Graal, simbolicamente interpretabile come la ricerca dell'Assoluto e dell'Immortalità, decide, all'incontro con un'aspetto più "vero" e"vicino" della vita, (la donna amata, e ciò che rappresenta), decide di rinunciare alla sua missione, e di donarsi alla vita e alla sua amata ("le tue armi al sole e alla rugiada hai regalato ormai, sacro non diventerai") e per tale motivo resterà anche "senza macchia".

Come tutto sembrerebbe, è la perfetta conclusione epica e al tempo stesso romantica di una narrazione incentrata tutta sul concetto dell'amore posto in contrapposizione con il sacro e l'assoluto, come le due superfici della Terra e del Cielo che però finiscono per incontrarsi. Così è secondo lo schema dell'album, ma non secondo il crescendo emotivo. Perchè il vero, assoluto vertice lirico, epico e romantico si raggiunge proprio lì dove meno l'ascoltatore se lo aspetterebbe, proprio con il brano posto in apertura dell'opera:

"L'anno, il Posto, l'Ora..." è realmente qualcosa che va oltre ogni possibile considerazione, anche oltre le parole che si possono provare a cercare per descrivere l'emozione, pura e sconvolgente che suscita. Si tratta di una canzone, con un un dolce piano e delicati arpeggi di chitarra acustica in apertura, e tuttavia, come se fosse involontariamente avvolta in una grandiosità sinfonica, come se tali note fossero straordinariamente in assonanza con l'anima di chi ascolta, e la musica solo un sottile velo che lascia trasparire tale bellezza. La canzone si suddivide in due parti, la prima più sognante, arcana, quasi onirica, raffigura metaforicamente l'incontro con un amore impossibile, e la vertigine lirica ne è la perfetta trascrizione, anche nelle partiture armoniche ("l'anno il settantatrè il posto il cielo artico, l'ora che senso ha, d'estate è sempre l'alba, l'incontro di ogni giorno con l'immensità credo finisca qua") i versi, straordinari, si fondono nella musica come un torrente scava la sua vallata nella terra e ne disegna la geografia; il crescendo graduale delle immagini sempre più ardite si avverte nel senso di attesa e sospensione che scorre nel fondo dei suoni: "suoni di vento e d'acqua che fermare vorrei... ma non c'è tempo ormai", fino alla vetta, corale di tale scalata per immagini, che senza più distinzione tra parole e musica, crea un effetto indescrivibile "e non dite a lei: non lo rivedrai, dite: non si sa, forse tornerà", sembra realmente di sentire l'urlo di un vento sferzante. Una canzone, apparentemente semplice, un inno grandioso e un racconto parabolico dell'amore sfiorato, della bellezza colta nello spiraglio di un istante e fissata nella mente eterna del vissuto. Non so, tornando alla mia personale considerazione iniziale, quanto sia importante che questo album riesca più o meno nell'ambiziosa meta che si prefigge. Forse, però una parziale "certezza" la si può cogliere tra le righe della seconda parte della memorabile canzone che lo apre, e che racconta di una vita quotidiana in un mondo reale: l'interruzione riporta lo sguardo interiore alle immagini dense d'assoluto del viaggio iniziale: "all'orizzonte là, il sole è un occhio immobile, è notte ma la notte qui d'estate è solo una parola" fino alla conclusione, prima del coro struggente e sferzante come l'aria gelida che spazza i ghiacci eterni "affascinata e stanca la mia anima va verso la libertà".
Review written by Bromike for debaser.it (on 6 March 2018 in the late afternoon)
Sono poche le parole utili per descrivere Parsifal. Ispirato all'omonimo capolavoro wagneriano, i Pooh sfruttano tutte le loro capacità strumentali (il ricco angolo tastiere da gruppo progressive di Facchinetti, le chitarre distorte di Dodi Battaglia, un D'Orazio più tecnico del solito ma comunque non brillante e Red, il nuovo bassista, perfettamente adagiato su questo brano che lo riporta alle sue origini da rockettaro di campagna). E così l'inno alla pace del cavaliere wagneriano colpisce tutti con melodie raffinate, purissime e suonate in maniera non perfetta (una sorta di rock distorto fuso insieme con la musica classica e con il pop sinfonico allo stesso tempo) ma quasi dai Pooh, abbigliati con maglie di ferro e stivali da combattimento. Ma Parsifal non è solo la suite strumentale omonima che chiude l'album: nel disco non mancano vere e proprie canzoni d'amore "evolute" rispetto al classico stile Pooh (messo in pratica nell'album "Alessandra" ) come "Io e te per altri giorni" o la fiabescamente ambientata "Lettera da Marienbad". E Valerio Negrini, che ci vedeva lontano, aveva deciso di parlare di omosessualità già nella fantastica "Lei e lei". Altra perla dell'album è "L'anno, il posto, l'ora", meravigliosa canzone con un testo di grande impatto (ho conosciuto molti che, nel sentirla, hanno creduto che il testo fosse di Dalla o Guccini) e una musica molto interessante che ha saputo entrare nell'animo di molti fan esperti del gruppo italiano come e più di Parsifal. Per Parsifal posso spendere solo buone parole, credo che sia il simbolo dell'evoluzione dei Pooh, gruppo che, nonostante le critiche, ha saputo farsi strada, prima con gli aiuti di Giancarlo Lucariello e di un direttore d'orchestra del calibro di Franco Monaldi (la cui orchestra fa parte dei 10 motivi per cui comprare questo disco) e poi evolvendosi sempre di più, talvolta sbagliando (o abbassando molto il livello) e talvolta passando alla storia. Promosso, uno dei migliori album progressive/sinfonici della storia italiana e molto interessante anche di fronte alle perle del prog inglese.
Review written by Ivano Rebustini for rockol.it (on 4 September 2018)
Chi può sapere che cosa sarebbe successo, se i Pooh avessero pigiato l’acceleratore nel maestoso largo Parsifal e rallentato fino a fermarsi nell’angusta via Infiniti noi… Ma con i “se” possiamo fare solo supposizioni e non la Storia, neanche quella del pop italiano: Camillo Facchinetti detto Roby, Donato “Dodi” Battaglia, Stefano D’Orazio e Bruno Canzian in arte Red hanno scelto un itinerario di tutte discese, e a noi resta solo la curiosità insoddisfatta di sapere dove sarebbero approdati se avessero azzardato qualche salita e accettato il rischio delle uscite di strada.

Quella strada maestra che - va detto - ha portato a un successo ancora vivo dopo trentaquattro anni (“Piccola Katy stanotte hai bruciato/tutti i ricordi del tuo passato”, cantava Riccardo Fogli nel 1968, anche se il primo 45 giri è “Vieni fuori” del ‘66, versione italiana di “Keep on running” dello Spencer Davis Group), un successo rimasto senza uguali in Italia, anche perché l’azienda Pooh è gestita da quattro manager oculati e lungimiranti. Mica male, per esempio, la trovata di sfruttare il prevedibile successo planetario del “Pinocchio” di Benigni per trainare il musical omonimo, che debutterà a Milano nel febbraio 2003, preceduto l’8 novembre dall’album con le musiche originali scritte dal quartetto per lo spettacolo diretto da Saverio Marconi. Ma questo è il futuro e non ci compete: qui s’ha da parlare di cavalieri, non di burattini.

“Parsifal, un cavaliere alla ricerca dell’amore”: proprio così doveva intitolarsi il disco, il primo dopo l’abbandono del bellone Fogli e l’ingresso del bellino Canzian, ventiduenne studente di psicologia a Padova. Cantante e chitarrista dei Capsicum Red, il gruppo prog nel quale aveva debuttato a diciotto anni, Bruno - che pur di giocare in serie A accetta di spostarsi all’ala, sì, insomma, al basso (del resto il chitarrista c’era già, e - come vedremo - particolarmente bravo) - porta con sé l’esperienza sinforock della “Patetica“ beethoveniana rivisitata nell’intero primo lato dell’album “Appunti per un’idea”.

Ma anche gli altri Pooh – spinti dal produttore Giancarlo Lucariello - sono sempre più tentati dal sinfonico: non si erano fatti accompagnare dall’orchestra in “Alessandra” e nell’ultimo tour con Fogli nei teatri, dal Petruzzelli di Bari al Sistina di Roma, al Lirico di Milano? Manca però il coraggio di andare fino in fondo, e così il disco, che si sarebbe poi intitolato semplicemente “Parsifal”, fino al minuto 37 - secondo più, secondo meno – non riesce a spiccare il volo dalla forma-canzone, pur se i brani hanno durate importanti (sei superano i quattro minuti, con punte di 6 e 18 per “L’anno, il posto, l’ora…” e addirittura 6 e 48 per la già citata e in ogni modo non particolarmente innovativa “Infiniti noi”), gli archi arrangiati da Gianfranco Monaldi ricoprono un ruolo di primissimo piano, qui e là si avverte il tentativo di emanciparsi dal pezzo-fatto-su-misura-per-la-hit-parade e non mancano spunti interessanti: l’intro da prova d’orchestra, la slide e il moog de “L’anno, il posto, l’ora…”; l’organo alla Procol Harum, il tempo di valzer, i fiati e il coro un po’ Beach Boys della “Locanda”; gli archi morriconiani che aprono – ancora lei - “Infiniti noi”.


È però con la title track che si compie il miracolo e si chiude il cerchio aperto dall’immagine di copertina, fornita dall’archivio del museo teatrale Alla Scala di Milano, e dalle foto dei quattro Pooh sulle mura e all’interno di un castello, vestiti da cavalieri medioevali.

“Parsifal” (da cui ha preso il nome l’acclamata cover band catanese dei quattro orsacchiotti) è una suite lunga dieci minuti, divisa in due parti (la seconda solo strumentale), con un testo in puro stile progressive italiano scritto dal solito Valerio Negrini, l’ex batterista diventato paroliere del quartetto.

Un pianoforte classicheggiante introduce il cantato, poi su un tappeto di mellotron – il glorioso M 400 - Dodi Battaglia stappa uno dei tre assoli di questo brano, che restano le migliori schitarrate del pop italiano anni Settanta, insieme allo strepitoso serpente sonoro di Alberto Camerini in “Senza senso” dell’Equipe 84 (1973) e all’irripetibile duetto tra lo stesso Camerini e Ricky Belloni nel “Volo magico n. 1“ di Claudio Rocchi (’71). Il secondo assolo traghetta sulla sponda strumentale, una sorta di “Concerto grosso” liofilizzato made in Pooh, con Dodi che baroccheggia alla Nico di Palo. Ma il bello deve ancora venire: il solo numero tre - quello maggiormente ispirato - dà a Battaglia tutto quel che è di Battaglia, e anche di più. Finale in gloria, con un crescendo di archi, ma le ultime parole del testo sono profetiche per l’evoluzione musicale della band: “Sacro non diventerai/qui si ferma il tuo cammino”.
Review written by Andrea La Rovere for ondamusicale.it (on 11 November 2020)
Avventurarsi nella storia dei Pooh significa farlo nella storia di cinquant’anni di musica italiana, passando dalle cantine beat di metà anni Sessanta agli aneliti del rock progressivo, dai suoni artificiosi degli anni ’80 fino alle scorribande sanremesi, per arrivare purtroppo alla prematura scomparsa di Stefano D’Orazio, storico batterista della band. (leggi l’articolo)

Noi ci limitiamo quindi a ripercorrere la loro pagina più complessa e autoriale, che prende il nome di “Parsifal”, e ha fatto nascere infinite discussioni tra gli amanti del rock progressivo più ortodosso e i fan dello storico complesso; i primi faticano ad annoverare il disco nel genere, per una serie di motivi spesso più ideologici che non musicali, i secondi che lo affiancano invece ai capolavori di quella florida stagione.

Nel 1973 i Pooh si erano già stabilizzati nella loro formazione più longeva: Roby Facchinetti alle tastiere, Dodi Battaglia alla chitarra, Red Canzian al basso e Stefano D’Orazio alla batteria; come canonico per molte band del post Beatles, tutti e quattro erano bravi cantanti, in grado di alternarsi alle parti soliste e all’occasione armonizzare in cori di buona qualità.

Può forse stupire, però, il fatto che nessuno dei quattro facesse parte della formazione originale, nata nei primi anni Sessanta a Bologna col nome di Jaguars, dall’incontro di Valerio Negrini, batterista, e Mauro Bertoli, chitarrista autodidatta; a completare il primo organico c’erano il cantante Vittorio Costa, Giancarlo Cantelli al basso e il tastierista Bruno Barraco. Il primo contratto con la Vedette, rimasta orfana dell’Equipe 84, prelude a una serie di cambiamenti: entrano in formazione Roby Facchinetti alle tastiere e Riccardo Fogli al basso.

Inoltre, scoperta l’esistenza di una band precedente che sfoggia lo stesso moniker, i ragazzi cambiano la ragione sociale in Pooh, forse in onore alla passione per Winnie the Pooh di Aliki Andris, segretaria di Armando Sciascia, patron della Vedette.

Così assestati, nel 1966 i Pooh esordiscono con “Per quelli come noi”, il loro primo album. La band inizia così la sua carriera discografica, che prosegue dapprincipio tra alti e bassi; l’album “Contrasto”, che contiene l’omonimo pezzo strumentale, prototipo di “Parsifal”, viene pubblicato senza il consenso del gruppo e porta alla separazione dalla Vedette. L’immediato ritiro dal mercato ne fa un pezzo ricercatissimo dai collezionisti, con quotazioni prossime ai duemila euro.

Negrini, nonostante i primi successi, preferisce abbandonare per rimanere solo come compositore, sostituito da Stefano D’Orazio, mentre Riccardo Fogli lascia poco dopo, tentato dalle sirene della carriera solista e non senza qualche polemica; al suo posto viene ingaggiato – alla vigilia di “Parsifal” – Red Canzian: nasce la formazione che calcherà i palchi per oltre quarant’anni.

La musica dei Pooh, al contrario dei canoni del rock progressivo, non ha in sé alcun elemento di conflittualità, né di avanguardia, venendo classificato dai puristi come pop melodico da classifica, tuttavia i musicisti sono universalmente riconosciuti come strumentisti di primordine. Facchinetti è abile nella composizione, ha un timbro vocale molto riconoscibile ed è un ottimo tastierista, anche quando è alle prese con sintetizzatori e Moog; Battaglia è a tutt’oggi riconosciuto come uno dei migliori chitarristi italiani, famoso nel mondo tanto che la Fender gli ha dedicato una speciale Stratocaster signature che porta il suo nome; il suo tocco fluido lo ha fatto paragonare a David Gilmour e la sua versatilità gli ha sempre permesso di passare in scioltezza dal rock al pop, fino alla fusion.

Canzian e D’Orazio, invece, arrivano proprio dal prog.

Il buon Red era infatti il chitarrista e il cervello dei Capsicum Red, discreta band prog con all’attivo l’album “Appunti per un’idea fissa”; reclutato dai Pooh si adatta a suonare il basso, tanto da farne lo strumento della sua vita musicale. D’Orazio è forse il meno tecnico come strumentista, ma proviene comunque da Il Punto, estemporanea band prog titolare di un solo album.

Quando, nel 1973, i Pooh danno alle stampe “Parsifal”, sono al loro sesto album e vogliono forse staccarsi di dosso l’etichetta di band melodica con un pubblico disimpegnato politicamente, quando non di adolescenti pronti a strepitare ai loro concerti.

“Parsifal” si presenta da subito come un lavoro che vuole fare da spartiacque tra la prima parte di carriera e la maturazione; per quanto non manchino gli episodi fortemente melodici e alcuni testi d’amore estremamente tradizionali, emerge senza dubbio una maggiore omogeneità di fondo di tutta la tracklist. La produzione è di Giancarlo Lucariello, che fa le cose in grande, affiancando ai quattro ragazzi la maestosa orchestra di quaranta elementi diretta dal Maestro Giancarlo Monaldi; il disco viene inciso presso gli storici studi di registrazione Idea Recording, nel quartiere Città di Studi di Milano, in via Moretto da Brescia: il meglio, all’epoca.

La copertina è ricavata da una locandina originale dell’opera “Parsifal” di Wagner tenuta al teatro La Scala, così come i costumi che Dodi, Roby, Red e Stefano sfoggiano nella foto del retrocopertina.

Le atmosfere musicali occhieggiano al coevo prog, ma soprattutto al rock sinfonico di band come Moody Blues e Procol Harum; il paragone coi Genesis è invece più stiracchiato.

Le nove canzoni si dividono in otto pezzi di pop sinfonico, raffinato ma piuttosto tradizionale, dove emergono per durata “Infiniti Noi” e l’iniziale “L’anno, il posto, l’ora”, e la suite che dà il titolo al lavoro, un’articolata composizione sinfonica di circa dieci minuti.

“Parsifal” si apre con “L’anno, il posto, l’ora” e ci si trova subito immersi in un clima più maturo; il testo narra gli ultimi minuti di vita di un pilota mentre il suo velivolo sta precipitando. Su un bordone di sintetizzatore si staglia presto un delicato arpeggio di chitarra, poi Battaglia, Facchinetti e Canzian si dividono le strofe con i lori caratteristici timbri per arrivare al ritornello cantato in coro; le atmosfere cambiano e – sulle liriche che rievocano un bozzetto familiare – si fanno più sognanti, con l’orchestrazione sullo sfondo. Il brano riprende poi la struttura iniziale e si conclude in crescendo: un pezzo distante dal prog, ma dove è racchiusa la summa dei migliori Pooh, a base di romanticismo, melodie cristalline e perfetta pertinenza strumentale.

Si prosegue con “Solo cari ricordi”, pezzo ad alto rischio glicemico per un testo che narra in modo piuttosto canonico di un amore finito e di una melodia che riesce quasi miracolosamente a rimanere in equilibrio tra orecchiabilità e capacità di non stancare. Il pezzo si contraddistingue nel finale con un assolo al fulmicotone di Battaglia: se a qualcuno non fosse chiara la grande statura musicale del chitarrista, la sua parte in questo brano è esemplare. Peccato che l’assolo vada presto sfumando.

“Io e te per altri giorni” è di nuovo un episodio in perfetto stile Pooh, melodia fin troppo facile, testo romantico e perfetta esecuzione strumentale; di nuovo in grande evidenza il bell’arrangiamento sinfonico. Le successive “La Locanda” e “Lei e lei” scorrono via senza lasciare particolari impressioni, portando con pochi scossoni allo scollinamento del vinile.

La seconda parte si apre con “Come si fa”, leggermente più sostenuta e sempre sorretta dalla tipica melodia a marchio Pooh. “Infiniti Noi” è uno dei due singoli dell’album, una ballata d’amore retta all’inizio solo su piano e voce, per poi fare spazio alla parte più sinfonica; l’epica melodia pare anticipare col suo crescendo la celebre “Uomini Soli”.
La parte centrale è a totale appannaggio dell’orchestra, mentre nel finale entrano anche la batteria e gli altri strumenti.


“Dialoghi” non aggiunge nulla di particolare e spiana la strada al climax del disco, quella “Parsifal” che segna forse la vetta più alta del canzoniere dei Pooh.

Il brano che dà il nome all’album è una suite divisa in due movimenti, il primo cantato e il secondo strumentale che, pur non rispondendo completamente alle tipiche strutture del progressive, può esservi annoverato a buon diritto. Le liriche epiche narrano di Parsifal, l’eroe dell’omonima opera wagneriana e la musica segue di pari passo la vicenda.

L’avvio è delicato, con la voce che si staglia sul pianoforte, con una linea melodica che ricorda, in versione soft, la bellissima “Cemento armato” de Le Orme, per poi lasciare il passo all’ingresso della batteria e degli altri strumenti dopo un minuto e mezzo.
Attorno ai due minuti parte il primo assolo di chitarra, una trentina di secondi che introducono un’altra parte cantata, basata su una nuova melodia. Una breve parte di chitarra lascia spazio al momento orchestrale, dai toni epici e quasi morriconiani.

Il pianoforte di Facchinetti porta il brano nell’ultima fase, dove viene ripresa la melodia di “Contrasto”, pezzo del controverso album di qualche anno prima, rivista in chiave sinfonica fino all’esplosione dell’ultimo assolo di Battaglia; è forse l’assolo per eccellenza di Dodi, con un suono saturo ma pulito e linee melodiche che ricordano il Santana più espressivo e certe cavalcate che saranno tipiche di Gary Moore. La giusta celebrazione di un grande musicista che conduce in porto il pezzo più ambizioso della sua band, dando fondo a tutto il suo repertorio.

“Parsifal” ottiene il successo di pubblico, ma viene snobbato dal movimento prog e dalla controcultura, che continua a ostentare indifferenza verso un gruppo che viene ritenuto lontano dalle idee avanguardistiche professate. I Pooh ci riproveranno col successivo “Un po’ del nostro tempo migliore”, album ancora più classicheggiante che ripropone una lunga suite in chiusura; secondo alcuni è qualitativamente superiore anche a “Parsifal”, di certo non ne raggiunte lo status di cult nella discografia.

Ma dopo il ’75 il prog è ormai ai titoli di coda e i Pooh tornano a quello che sanno fare meglio, il pop da classifica che li vedrà protagonisti, tra alti e bassi qualitativi ma sempre con successo, fino ai giorni nostri.
Le ultime cartucce sperimentali le sparano nel singolo del 1978 “Fantastic Fly/Odissey”, commissionato dalla Rai come colonna sonora della miniserie “Racconti fantastici”, ispirata a Edgar Allan Poe; sono i tempi delle OST dei Goblin per Dario Argento, quelle di “Profondo Rosso” e “Suspiria”, e i Pooh si divertono a suonare cupi e gotici quanto basta, con risultati ottimi.

Ma è poco più di un divertissement, e da allora la band tornerà nei canoni del proprio genere, con irripetibile successo.

Andrea La Rovere – Onda Musicale
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