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Детали релиза : Vasco Rossi - ...Ma Cosa Vuoi Che Sia Una Canzone (1978/2001) [FLAC (tracks + .cue)]

AlbumVasco Rossi - ...Ma Cosa Vuoi Che Sia Una Canzone (1978/2001) [FLAC (tracks + .cue)]
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Vasco Rossi - ...Ma Cosa Vuoi Che Sia Una Canzone (1978/2001) [FLAC (tracks + .cue)](кликните для просмотра полного изображения)
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Описание/Треклист
Artist: Vasco Rossi
Album: ...Ma Cosa Vuoi Che Sia Una Canzone
Released: 1978/2001
Label: BMG Ricordi S.p.A.; Sarabandas S.r.l.
Catalog #: 74321 766162
Genre: Rock; Pop; Pop Rock; Chanson; Ballad
Country: Italy
Duration: 00:31:30

Tracklisting:

01. La Nostra Relazione [3:03]
02. ...E Poi Mi Parli Di Una Vita Insieme [4:30]
03. Silvia [3:34]
04. Tu Che Dormivi Piano (Volò Via) [4:18]
05. Jenny È Pazza [7:13]
06. Ambarabaciccicoccò [4:01]
07. Ed Il Tempo Crea Eroi [3:31]
08. Ciao [1:24]
Info
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Review written by Franco Zanetti for rockol.it (on 1 March 2010)
Più o meno dieci anni fa la casa editrice Il Mulino pubblicava un libro che cambiava radicalmente e irrevocabilmente lo scenario della critica della musica leggera: “Canzoni”, di Edmondo Berselli.

Oggi, la stessa casa editrice pubblica un altro libro che è già imprescindibile: non solo dovrebbero leggerlo tutti quelli che si occupano professionalmente o amatorialmente di canzone italiana, ma il suo studio preventivo dovrebbe essere reso obbligatorio per tutti quelli che desiderano iniziare a scrivere canzoni. (Ci sarebbe ora da domandarsi come mai, mentre case editrici più grandi e forti continuano a pubblicare su argomenti musicali libri sciatti e malfatti, sia una piccola casa editrice a vocazione culturale e saggistica a dare alle stampe testi così importanti: ma sarebbe un discorso troppo lungo, lo faremo un’altra volta). Giuseppe Antonelli, professore di linguistica italiana, studia e analizza qui, con gli strumenti scientifici della sua specializzazione, “mezzo secolo di italiano cantato”: lo fa con un approccio rigoroso e colto, ma con una scrittura brillante e comprensibile anche ai non-tecnici (come me, come molti di voi), e il risultato è una lettura densa e interessante, ma al tempo stesso leggera e divertente, fitto com’è il libro di citazioni di testi di canzoni che hanno fatto la storia della musica leggera italiana. Per essere un semplice “appassionato di canzonette”, Antonelli se la cava benissimo anche nel campo della storiografia della musica leggera: ho trovato nel suo libro un solo svarione, l’attribuzione - a pagina 159 e 170 - dell’esecuzione vocale di “Buonasera dottore” a Claudia Mori e Alberto Lupo (colpa delle solite maledette ricorrenze di Google e dell’effetto contagio di “Parole parole”): in realtà la voce maschile della canzone è quella del doppiatore Franco Morgan. Ci sono anche tre punti sui quali non concordo con l’interpretazione di Antonelli (sono a pagina 108, su “Natale” di De Gregori, a pagina 130, su “4 marzo 1943” di Lucio Dalla, e a pagina 148 sull’uso del “che” subordinante): ma non posso certo mettermi a discuterne qui. Spero che mi capiti l’opportunità di farlo con l’autore di questo fondamentale e prezioso libro, al quale rinnovo tutta la mia ammirazione.
Review written by GerryKing for debaser.it (on 7 January 2011 around noon)
Siamo nella seconda metà degli anni '70, nei cosiddetti "anni di piombo", in un Italia in fibrillazione per le contestazioni studentesche e per il movimento del '77 e in particolare per i fatti del marzo di quell'anno, a Bologna, in cui un giovane studente rimase tragicamente ucciso da un proiettile durante alcuni scontri tra studenti. Si diffondono le radio libere e si inizia a guardare con curiosità alle culture che tanto stavano spopolando negli stati anglofoni: la psichedelia magica del concerto del '69 di Woodstock e la furia distruttiva e anarchica del Punk.

In questo ambiente, ancor di più in quell'emilia romagna densa di disordini, che si forma il giovane Vasco Rossi che proprio nel '75 fonda "Punta Radio", una delle tante radio libere che si stavano diffondendo nel territorio. Il Vasco 23enne suona la chitarra e strimpella le canzoni della tradizione melodica italiana e dei grandi cantautori, in particolar modo De Gregori e Battisti e anche De Andrè e Paolo Conte, ma è attratto dalla musica dei gruppi rock come Rolling Stones, Who e Pink Floyd.

L'esordio musicale risale al 1978: "...Ma cosa vuoi che sia una canzone...", questo il nome del primo LP di Vasco, che viene interamente arrangiato dall'amico Gaetano Curreri, leader degli Stadio, che suona anche le tastiere.

L'album, musicalmente parlando, risente tanto della tradizione cantautorale italiana e presenta lo spirito tipico del rock anni '70 made in Italy, per intenderci quello del Rock Progressivo delle Orme, degli Area, del Banco del Mutuo Soccorso e così via. Riguardo i testi, Vasco affronta in maniera ingenua e spensierata l'universo femminile, l'amore e i problemi sociali. Del resto ma che che cosa vuoi che sia una canzone?

E' proprio questo il punto i musicisti cercano una maturità musicale che spesso, ma non sempre, consegue nel ribaltamento dei presupposti iniziali proprio quelli che hanno fatto intraprendere la carriera a un artista; quella genuinità delle prime canzoni, la voglia di comunicare un'emozione, la rabbia e il vigore di chi vorrebbe vivere in un mondo diverso e di chi vuole farsi portatore di un ideale. Quando poi, ti ritrovi a gestire un pubblico di non poca rilevanza, il problema si fa molto articolato è scegliere le soluzioni più facili è comprensibile, ma a mio parere non giustificabile.

Ritornando al disco, questo si apre con "La nostra relazione", canzone di una storia molto prossima all'epilogo in cui il cantante decide di mettere la parola fine a questa (lasciamo stare dai, non facciamo un letto ormai disfatto), a metà tra un Battisti malinconico e la Pfm. "...e poi mi parli di una vita insieme", seconda traccia, si apre con un basso ossessivo che fà da apripista al cantato di Vasco, che in questa canzone sembra strizzar l'occhio a Rino Gaetano (mi dici che tuo padre vuole sapere che cosa intendo fare, ma che cosa ne sa lui di fare, se tutta la vita non ha fatto altro che stare a guardare?), che incita una donna a reagire perchè c'è un mondo, il mondo di Vasco, che è diverso da quello della "routine", della famiglia, del lavoro; la canzone tuttavia si conclude con la rassegnazione del rocker di Zocca (la colpa non è tua, la verità è che al mondo tu servi così).

"Silvia" e Tu che dormivi piano" sono delle ballate melenze che rivelano l'animo più romantico del giovane, mentre, "Jenny è pazza" è il pugno allo stomaco dell'LP, malinconica e triste, affronta il tema della diversità che spesso viene accentuata dall'esorcizzazione di chi si crede di essere "normale" (Jenny sta bene, è lontana, la curano... ...Jenny è pazza, c'è chi dice anche questo). Poi arriva il capolavoro di questo "...Ma cosa vuoi che sia una canzone...", l'ironica "Ambarabaccicciccoccò" in cui Vasco prende in giro se stesso (i giovani di oggi [...] cantano Dio salvi la regina fascista e borghese - con evidente riferimento al punk inglese dei Sex Pistols) con l'obiettivo, però di criticare le convinzioni inamovibili del periodo (perchè il partito ti può aiutare [...], perchè il partito è un'istituzione). Ultima canzone del disco, "Ed il tempo crea eroi", un country gucciniano, che riprende le tematiche di "...e poi mi parli di una vita insieme", cercando di dare una scossa al popolo insofferente (ma restate pure calmi, lì, seduti al bar, con il vostro dio e i vostri piccoli guai).

Finite le canzoni il cantautore/rocker modenese ci saluta con un brano strumentale intitolato, appunto, "Ciao". E detto questo vi saluto pure io.
Review written by Stefano Solventi for sentireascoltare.com (on 5 December 2018)
La cometa della retromania fa tappa su Zocca, sorta di Betlemme del rock italiano, annunciando lieti ancorché remoti eventi riconducibili, va da sé, alla figura di Vasco Rossi, da qualche anno noto ai fan come il Komandante, o Kom per i più confidenti (perdonate le K). Tutto lascia pensare che Sony abbia mosso le pedine giuste per avviare la ristampa dell’intero catalogo, a partire ovviamente da …Ma cosa vuoi che sia una canzone…, esordio che vide la luce nel maggio ‘78, pochi mesi dopo la pubblicazione del 45 giri Jenny è pazza/Silvia. Se quest’ultimo riuscì a piazzare la tutto sommato ragguardevole cifra di 20.000 copie, il long playing – uscito per la Borghetti, etichetta specializzata in ballo liscio – non andò oltre le duemila. Il fenomeno Vasco Rossi prese le mosse quindi da una diffusione circoscritta, in quella seconda metà dei Seventies che lo avevano visto guadagnarsi un po’ di notorietà come DJ (fu tra i fondatori – nel 1975 – di Punto Radio, una delle prime radio libere italiane), dopo essere stato a lungo impegnato anche in attività teatrali.

L’album di debutto fu quindi un’operazione piuttosto artigianale e del tutto indipendente, per lui e per i musicisti coinvolti, a partire dal produttore e strumentista Gaetano Curreri, futuro leader degli Stadio che solo l’anno successivo avrebbe visto decollare la carriera grazie alla chiamata di Lucio Dalla. Le idee su cosa sarebbe diventato da grande il venticinquenne Rossi erano quindi poco chiare, come testimonia questo disco, molto lontano dal linguaggio rock del Vasco versione Eighties, di cui il successivo Non siamo mica gli americani – pubblicato un anno più tardi e benedetto (quasi cannibalizzato) dalla presenza in scaletta della fortunatissima Albachiara – lascerà intravedere solo i primi segnali. Appunto nei primi Ottanta, dopo la sopraggiunta celebrità frutto dei passaggi sanremesi, chi andava a recuperare le cose del primo Vasco (tipo il sottoscritto) rimaneva piuttosto spiazzato dalla tracklist di …Ma cosa vuoi che sia una canzone…, di cui non a caso nessuna traccia fu poi scelta per il live Va bene, va bene così (1984), album capace di superare il milione di copie vendute e di sancire così l’ingresso definitivo del rocker di Zocca nell’immaginario collettivo del Belpaese.

Una metamorfosi, quella di Vasco nel principe svaccato dei rockettari nostrani – con tutto il provincialismo e le pose coatte del caso – consumato gradualmente tra Colpa d’Alfredo (1980) e Siamo solo noi (1981), quest’ultimo forse il suo capolavoro, disco che mette a punto a inizio decennio quel senso preciso di tossicità rock in grado di raccontare il lato allucinato, squallido e tragico di quegli anni somma(ria)mente edonistici. Ma il punto sta proprio qui: Vasco e il suo giro, che dal 1980 coagulerà in Steve Rogers Band, diventano rock prendendo in prestito dal punk e derivati – all’epoca format dominanti in ambito rock – qualche atteggiamento e alcune angolazioni (riducendosi a una posa persino ironica, come testimonia lo pseudo-omaggio ai Pistols in coda a Fegato, fegato spappolato), ma stilisticamente punk non saranno mai davvero, visto il retroterra cantautorale, classic rock – sbilanciato power pop con ascendenze hard glam – e persino prog. L’album d’esordio di Vasco, difatti, si muove tra queste tre coordinate principali: nella fattispecie, la cifra cantautorale dimostra fin da subito un taglio disilluso e marcatamente ironico, che rimarrà nel tempo ma che all’epoca assunse forme tanto ingegnose quanto bizzarre.

In questo senso, una delle canzoni che più sconcertava i miei quattordici anni di ormai seguace del Blasco (altro nomignolo che ha avuto una certa fortuna) era Ambarabaciccicoccò, una ballata dal singhiozzante incedere honky tonk col piano a dettare il passo, il latin-tinge percussivo, le chitarre a pennellare quasi west coast e un sax a fare festa, il tutto al servizio di un testo sarcastico e agrodolce che mette nel mirino il riformismo e le sue fregature (risultando, ahinoi, profetico). Ci misi del tempo a capire che si trattava di un pezzo eccellente, e altro tempo ancora per collocarlo in pianta stabile tra i migliori mai usciti dalla penna del Nostro (che in …Ma cosa vuoi che sia una canzone… firma tutte le tracce in programma, diversamente da come accadrà più avanti: altro elemento da tenere nella dovuta considerazione). Simile per tematiche (il conformismo, con particolare riferimento al ruolo della donna), anche se più intima, seria e un po’ meno riuscita, è …E poi mi parli di una vita insieme (sia messo a verbale: è un vizio antico quello dei puntini, che Vasco non ha mai perduto), la cui variazione centrale s’impenna lirica chiamando a raccolta elementi prog palpabili, seppure ibridati in senso canzonettistico e in una prospettiva tardo-glam.

Lo stesso avviene nella opening La nostra relazione, pezzo che doveva suonare piuttosto anacronistico (stavo per scrivere: stantio) già in quel finire di Settanta, quando cioè i conti con gli assolo di chitarra ad alto coefficiente melò (siamo dalle parti dei Pooh in fregola cavalleresca di Parsifal), il moog e il coro floydiano (una Iskra Menarini utilizzata un po’ come Clare Torry in The Great Gig In The Sky) erano già stati fatti: eppure, forse per la convinzione drammatica e per la sporcizia naïf del cantato, finisce per farsi apprezzare non poco, tanto da venire considerato uno dei classici del canzoniere di Rossi. Un po’ come la lunga – quasi una suite – Jenny è pazza!, arpeggi di piano e chitarra acustica a dettare i confini di uno spazio mentale onirico e malinconico, questo lo scenario in cui si consuma una storia (autobiografica) di depressione e incomprensione, costruita con piglio filmico (vedi la fuga pastorale, poi la svolta glam-prog quasi Queen) e con esiti piuttosto suggestivi: è un altro pezzo comprensibilmente molto amato dai fan, non a caso oggi scelto per la promozione della ristampa con l’accompagnamento di un video d’animazione.

Come detto, Jenny… fu l’esordio assoluto su 45 giri di Vasco, il cui lato B era occupato da Silvia, una controparte tenera, bucolica e quasi gioiosa della faccenda. La protagonista viene ritratta con delicatezza folk (e orchestrazioni di mellotron) come una fanciulla che sta sbocciando alla consapevolezza del corpo e di se stessa, innescando un contrasto deciso (sia nel testo che musicalmente) col mondo che vorrebbe soffocarla – riecco il tema portante – nel conformismo più vischioso, a partire da quello che lubrifica gli affetti familiari. Simile per certi versi è Tu che dormivi piano (Volò via), folk acustico a tempo di valzer con mellotron e tastiere, l’io narrante preso dall’incantesimo per l’amata qui dipinta con piglio stilnovistico (invero stucchevole), poi fuga folk-prog con assoli indiavolati di chitarra e tastiera, e ancora uno scorcio tra il fiabesco e lo spacey (con licenza cioè di ricordare la Space Oddity che è in ognuno di noi) nel sottofinale. Resta da dire di Ed il tempo crea eroi, folk ballad (alla chitarra acustica c’è il mitologico Maurizio Solieri, al violino Paolo Giacomoni) che guarda un po’ al Dylan di Desire – uscito giusto nel ’76 – così come al nostro Guccini, nel mirino sempre la società narcotizzata, conforme e ingiusta («e alla gente povera rimanga l’onestà / a vantaggio di chi non ce l’ha / che comunque può comprarsela»), a cui fa gioco un certo estro “weird” di Vasco che esce allo scoperto nel canto mefistofelico del finale. Chiude la scaletta Ciao, breve, suggestivo notturno di piano (suonato dal buon Curreri con la fragranza crepuscolare di uno Chopin arenato sulla via Emilia), uno dei pochissimi strumentali nella discografia del Blasco futuro Kom (mi vengono in mente solo Ultimo domicilio conosciuto, contenuta in Bollicine del 1983, e Rock Star da Sono innocente del 2014).

Al di là delle chiari finalità commerciali dell’operazione, questa ristampa presenta quindi non pochi motivi di interesse proprio per come stuzzica ipotesi critiche/ucroniche su ciò che (non) è stato e che avrebbe potuto essere. Un po’ come sempre accade in casi del genere, e come già ho scritto ad esempio per il box dedicato al White Album. Qui tuttavia non si fa luce sul “farsi” delle canzoni (compito parzialmente delegato alla puntata di 33 Giri Italian Masters confezionata ad hoc), ma ci si affida a una semplice rimessa a nuovo delle otto tracce di …Ma cosa vuoi che sia una canzone…, operazione comunque sufficiente a farci riconsiderare il valore di un album sommerso e sepolto dalla valanga musicale e mediatica che Vasco ha saputo meritarsi coi lavori successivi, costruendosi una carriera che quel punto di partenza ha quasi del tutto dimenticato (stavo per scrivere: rinnegato). Un fenomeno del tutto comprensibile, persino giusto e per molti versi inevitabile.

Si tratta comunque di una riscoperta utile a fornire alcune indicazioni sullo stato delle cose in quel frangente così delicato della nostra Storia, a evitare cioè la trappola delle schematizzazioni, se non altro per come ribadisce quanto la scena musicale, in particolare quella bolognese, si caratterizzasse per la compresenza di sensibilità e attitudini diverse e intrecciate, per stratificazioni stilistiche non necessariamente orientate verso l’ultimo grido del punk. Di Vasco Rossi, il suo album di debutto ci dice tra le altre cose che se durante gli Ottanta abbiamo guadagnato una figura di riferimento per il rock italiano – piaccia o non piaccia, è così – abbiamo però perduto quasi del tutto un (cant)autore acuto e bizzarro, dotato di una sensibilità capace di intercettare inquietudini sopra e tra le righe, una specie di – consentitemi – Rino Gaetano sospeso tra città e periferia, privo cioè di quella sorta di salvagente rural/popolare che sostanziava il lirismo surreale del cantautore crotonese. Quel primo Vasco si presentava sradicato e in un certo senso straniero nella propria città e nel proprio tempo, perciò “costretto” a costruirsi un alibi fiabesco o ironico, a ritagliarsi un ruolo da cronista intimista e sbruffone, da testimone allo stesso tempo immischiato, spaesato e conflittuale, capace in qualche modo – questo il suo reale talento – di decifrare situazioni generazionali ad alzo zero.

Abbiamo perduto insomma un cantastorie “gonzo” – nel senso di “autore che diventa protagonista delle sue stesse opere” definito da Hunter S. Thompson – e ne abbiamo ricevuto in cambio un rocker via via sempre più efficiente, prigioniero di un ruolo funzionale al sistema, a quello stesso sistema cioè che fingeva di scandalizzarsi per la sua tossicodipendenza reale, per lo stile canoro strascicato (subito macchiettizzato) e per i quadretti blandamente trasgressivi (in realtà più disillusi che altro) che prendevano vita nelle sue canzoni. Diciamolo: Blasco (o se preferite il Komandante) è l’ultracorpo che si è divorato (quel primo) Vasco Rossi, e la ristampa di questo album d’esordio così acerbo e ispirato, così avventato, divertito e visionario, ce lo fa capire con evidenza disarmante. La riprova ci è stata fornita dal già citato episodio di 33 Giri Italian Masters, dove il Kom è sembrato l’unico incapace di liberarsi da ciò che è oggi, dall’ultracorpo che lo ricopre, di restituire assieme al ricordo il senso genuino delle sessioni di quel 1977, come invece Maurizio Biancani (il tecnico del suono della Fonoprint) e Curreri (che personaggio non è mai stato) hanno saputo fare tutto sommato bene.

Vasco Rossi, va da sé, oggi è un’istituzione. Il suo passato rende pressoché ininfluente – nel bene e nel male – ogni considerazione di valore rispetto a ciò che potrà produrre da adesso in avanti (è così già da molti anni, in realtà). Con ogni evidenza questo vale anche retroattivamente: chi decide di ristampare oggi il suo album d’esordio lo fa, credo, perché sa quanto ogni valutazione musicale e contenutistica finirà metabolizzata dal suo ruolo di reliquia sonora, data in pasto ai fan quale additivo per la loro comunque inscalfibile adorazione. Discorso applicabile, pur con le differenze del caso, anche agli album successivi, fino a – diciamo – Bollicine compreso. Qualcosa mi dice perciò che dovremo attenderci puntuali ristampe – la cadenza sarà perfettamente annuale – e altrettanto puntuali celebrazioni del titolo di turno. Nulla di male, ci mancherebbe. Anzi, se così fosse, ci vedrei pure un aspetto positivo: il Komandante non sarà obbligato a sfornare pezzi nuovi per giustificare gli ormai tradizionali concertoni estivi. Forse...
Review written by Patrizio Ruviglioni for rollingstone.it (on 7 December 2018 at 12:02)
La carriera universitaria claudicante, gli inizi come dj di provincia, le prime radio libere e lo sguardo da sbandato qualunque: sarà forse per il ragazzo che era agli esordi, a metà dei Settanta, che nonostante tutto Vasco Rossi non è mai stato percepito veramente come un “divo” – perlomeno non agli occhi di chi non ne è un fan integralista -, ma piuttosto “uno che ce l’ha fatta”, working class hero all’italiana, per quanto il solo qui in grado di riempire gli stadi da trent’anni, al di là della qualità ondivaga delle sue produzioni.

Per intercettare lo spirito degli inizi, comunque, il 7 dicembre esce un remasted del suo primo LP, …Ma cosa vuoi che sia una canzone…, perfetto per soffermarsi sulle basi artistiche di Vasco, sui suoi riferimenti primari, mai sopiti nonostante successivi, impronosticabili sviluppi. Riscoprire quel disco (dimenticato e un po’ underrated, all’epoca pubblicato solo in Emilia e passato praticamente inosservato) a distanza di quarant’anni, allora, significa riscoprire le radici di una parte di musica italiana, il nocciolo dell’anima “qualunque” del Blasco, oltre ad affacciarsi a una parte della sua produzione quanto mai atipica, strana, distante e diversa da quella più nota, ma forse per questo fra le più interessanti della sua discografia.

Bene, diciamolo subito: per capire il Vasco del 1978 – un dj che aveva appena imbracciato la chitarra, conosciuto giusto fra Bologna e Modena – bisogna capire l’Italia di quegli anni, perché il Nostro era figlio di quella cultura, coi riferimenti coagulati nel Settantasette. Chi c’era, quindi, nelle hit parade di quegli anni? I cantautori, su tutti: Faber e Guccini, ma soprattutto De Gregori, Dalla e Rino Gaetano. Mancava poco a Banana Republic (a cui il Blasco, qualche anno dopo, dedicherà un esplicito tributo, “Asilo Republic”, tanto per dire la devozione), quel movimento stava raggiungendo l’apice, e il Nostro non poteva che attingerne a piene mani. Quindi sì, per quanto oggi possa sembrare assurdo, il Vasco Rossi di …Ma cosa vuoi che sia una canzone… era un cantautore a tutti gli effetti.

Lo stile era ancora acerbo e lontano dal rock – ad esempio – di Bollcine, in mostra su pilastri non ancora strettamente personali, ma traspariva comunque folate di un’identità (e di un immaginario) che in seguito avrebbe significato molto, per tanti(ssimi). Basterebbe fermarsi all’opener, La nostra relazione, punto zero di una carriera intera, per capire. Musicalmente siamo in un’intersezione fra Rino Gaetano e De Gregori, ma il testo parte già per la tangente: la provincia, il disimpegno politico, la noia e l’amarezza, il quotidiano, la perdita di ideali. È la “relazione” di Vasco, sì, ma è anche la storia di migliaia di giovani, di un amore che non ha più senso, non è più un valore, che parte già come abitudine, come ideale essiccato, un ramo secco al vento (“Ci limitiamo a vivere dentro allo stesso letto / un po’ per abitudine e un po’ anche per dispetto“). E poi il cantato, certo: dissacrante, maleducato, goffo e delicato. Suo, insomma, e ancora parecchio naif. La produzione – anche – è grezza, al limite del lo-fi, e si fatica ritrovare un altro disco del Blasco con così tante chitarre acustiche e pianoforti.

Ma i segnali dal futuro, dicevamo, ci sono: …e poi mi parli di una vita insieme è uno spoken dinoccolato à la Piero Ciampi, che racchiude in sé un’essenzialità di scrittura, una semplicità lessicale e argomentativa (il tema è la difficile emancipazione femminile, ma per Vasco sembra più una constatazione disincantata, uno scorno generazionale, che una battaglia da combattere) che farà scuola; Silvia e Tu che dormivi piano, invece, sono quadretti dolci e taglienti di quello stesso autore che, già sensibile storyteller, l’anno dopo, aggiustando il tiro da una formula ancora tanto cantautorale verso un indirizzo più spiccatamente melodico, concepirà un pezzo come Albachiara.

E se poi i due assoli (e i sette minuti totali) di Jenny è pazza rappresentano un gioiello incontaminato di stralunata ingenuità e goffa psichedelia mai più ritrovato, in …Ma cosa vuoi che sia una canzone… c’è spazio anche per una bella porzione di ironia, politica e feroce (Ambarabaciccicoccò) o intima e amara (Ed il tempo crea eroi) che sia. Così, acustica in mano, ritmo incalzante e piglio à la Rino Gaetano di provincia, il Nostro piazza con disinvoltura due manualetti da puro folk-rock da balera, pezzi d’artigianato fra i più sporchi (e riusciti) di quegli anni, prima che Ciao – strumentale ingenua e naif nel suo essere così “non richiesta” – metta al disco la firma conclusiva, impacciata e incosciente, di un Vasco che aveva ancora tutto da scoprire, quarant’anni fa.
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