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Детали релиза : Vasco Rossi - Non Siamo Mica Gli Americani! (1979/2008) [FLAC (tracks +.cue)]

AlbumVasco Rossi - Non Siamo Mica Gli Americani! (1979/2008) [FLAC (tracks +.cue)]
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Vasco Rossi - Non Siamo Mica Gli Americani! (1979/2008) [FLAC (tracks +.cue)](кликните для просмотра полного изображения)
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Описание/Треклист
Artist: Vasco Rossi
Album: Non Siamo Mica Gli Americani!
Released: 1979/2008
Label: Ricordi; Sony BMG Music Entertainment Italy S.p.A.
Catalog #: 88697290812
Genre: Rock; Pop; Pop Rock; Chanson; Ballad
Country: Italy
Duration: 00:34:41

Tracklisting:

01. Io Non So Più Cosa Fare [4:00]
02. Fegato, Fegato Spappolato [3:14]
03. Sballi Ravvicinati Del 3° Tipo [5:11]
04. (...Per Quello Che Ho Da Fare) Faccio Il Militare [4:32]
05. (...Per Quello Che Ho Da Fare) Faccio Il Militare (Reprise) [0:37]
06. La Strega (La Diva Del Sabato Sera) [4:44]
07. Albachiara [4:05]
08. Quindici Anni Fa [5:11]
09. Va Bè (Se Proprio Te Lo Devo Dire) [3:11]
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Review written by Viva Lì for debaser.it (on August 23, 2006 in prime time)
Vote 5/5

Francamente oggi è insopportabile: nuota nell'oro come Paperon de Paperoni, è corteggiato da decine di marchi pubblicitari famosi e riempie gli stadi anche quando i biglietti costano 100 euro, vederlo cantare "Un senso" (che io considero la canzone italiana più insulsa degli ultimi trent'anni) mette tristezza e malcelata malinconia.

E sì, perchè, per chi non lo sapesse, anche il Vasco ha avuto il suo periodo d'oro, ed era pressapoco intorno al 1979. Sia chiaro, faceva dischi molto originali e non vendeva più di dieci copie, era indipendente e aveva il coraggio di osare.

Lo dimostra in maniera eccellente questo capolavoro (l'unico, e tengo a sottolinearlo, l'unico, nella lunga e dispendiosa discografia di Vasco), "Non siamo mica gli americani". Sapeva fare il rock, sapeva spaziare da genere a genere (il blues, il pop, il rock, il tardo vaudeville) e, soprattutto, aveva il coraggio di parlare di argomenti tabù (sesso, droga, pacifismo, desolazione giovanile) ad un Italia ancora bigotta e già sfasciata dai morti eccellenti per mano di brigatisti killer. Tutti lo chiamavano 'tossico', tutti dicevano che era un balordo, e un fondo di verità forse c'era, ma non era questo il problema: che fosse tossico o balordo Vasco sapeva fare musica, e sapeva addirittura cantare senza prendere nemmeno una stecca.

"Non siamo mica gli americani" è un disco che chi è giovane non può comprendere, inzuppato com'è fino alle orecchie di robaccia come "Senorita" e per la scarsa conoscienza storica (sia essa sociale o politica) presente in Italia in quegli anni. Perchè è difficile capire oggi, se si è giovani, cosa voleva dire cantare quasi trent'anni fa "Fegato, fegato spappolato". Oggi sentir parlare di droga è all'ordine del giorno, ma nel 1979 parlare di droga in maniera tanto libertina e schietta era quasi come mostrarsi nudi in televisione (cioè era un peccato quasi mortale).La sferzata rock di "Fegato, fegato spappolato" si contrappone alla lucida calma di "Per quello che ho da fare (Faccio il militare)", brano che inneggia al pacifismo: Vasco si chiede a che cosa serva l'addestramento militare se non ci sono guerre a cui partecipare, e chiude con un mesto "Per quello che ho da fare,....faccio il militare". Il brano, musicalmente semplice, si divide in due parti: la prima introduce il discorso del brano, la seconda lo esplica meglio. Assolutamente d'atmosfera "Sballi ravvicinati del terzo tipo", anche qui si allude alla droga e si fa il verso al celebre capolavoro di Steven Spielberg "Incontri ravvicinati del terzo tipo", ma, se il brano è molto bello soprattutto per quanto riguarda il testo, il finale interspaziale, coi suoni della navicella spaziale, mette i brividi ad ogni ascolto.

Non resta che parlare anche un pò dei giovani (quando Vasco lo sapeva fare, non come ora che vuol ergersi a paladino della gioventù quando, in proporzione, fa più soldi lui di Bill Gates), "Io non so più cosa fare" è l'antesignana di "Siamo solo noi", solo con più rabbia e più lucidità. Molto riuscita anche "La strega" in cui si racconta la strana vita di una abitueé delle discoteche, mentre "Va bè" è un dixieland deliziosissimo, non privo di sfumature ironiche più che godibili. Non fa una grinza nemmeno "Quindici anni fa", in cui Vasco riprende la lezione del rock americano, ma il pezzo da novanta, quello che passerà alla storia è "Albachiara", la madre di tutte le ballate italiane, un brano che mette serenità e provoca angoscia: la solitudine di una ragazza nel manifesto della gioventù di fine anni Settanta, accenni sessuali perfetti ("con una mano, una mano ti sfiori") e una coda finale tanto mirabile quanto sorprendente. All'epoca, nessuno disse niente: "Albachiara" passò inosservata. E pensare che gli arrangiamenti furono curati da Gaetano Curreri, odierno leader degli Stadio (insomma, non proprio un genio nel senso stretto del termine).

"Non siamo mica gli americani" è bellissimo: chi avrà il piacere di ascoltarlo (e capirlo) avrà modo di apprezzarlo, chi detesta Vasco a prescindere è meglio che non lo ascolti proprio perchè non capirebbe niente, chi è giovane, o apprezza la storia del nostro paese o troverà questo album insignificante.

Poveri loro, non sanno quello che si perdono.
Review written by Il Tarantiniano for debaser.it (February 7, 2012 in the late evening)
Vote 5/5

1979.

A un anno di distanza dal primo lavoro "Ma Cosa Vuoi Che Sia Una Canzone", Vasco Rossi realizza quello che è la sua essenza, il suo primo ed efficiente capolavoro, l'urlo di una generazione di sconvolti che non ha più santi ne eroi.

Lo stile di Vasco, a differenza degli altri cantanti di quel periodo, è composto principalmente da testi che affrontano i problemi della società con una ironia originale, giocando molto sul così detto "gioco di parole" e su vari scioglilingua, ma soprattutto un'altra cosa che Vasco ha di grandioso, oltre che la sua grinta, è la musica. Molto orecchiabile, non ti stanca mai, non c'è una canzone di Vasco che ti annoi. Ti sa prendere, ti sa far cantare a squarciagola come nessun altro... ovviamente sto parlando del Vasco prima della sua lenta e dolorosa (più che altro per noi e per le nostre orecchie) caduta negli ultimi 7 anni.

Ma ora analizziamo bene questo grande lavoro: 1) "Io Non So Più Cosa Fare" è una canzoncina pop molto allegra con un testo molto simpatico e un giro di chitarre orecchiabile e facile da ricordare. 2) "Fegato, Fegato Spappolato", e qui si entra nel puro stile del "Vasco" di quegli anni, molto provocatorio, quasi punk. Testo molto demenziale, musica azzeccata, quasi una ballata rock soffocata con un ipnotico giro di basso. Diventò un master del cantautore che purtroppo col passare del tempo ha quasi rischiato di finire nel dimenticatoio per fare spazio a canzoncine pop come "Senorita", ma i veri fan del Vasco non l'hanno abbandonata. Il pezzo termina con "God Save The Queen" dei Sex Pistols... un finale degno di una degna canzone. 3) "Sballi Ravvicinati Del Terzo Tipo" è una di quelle canzoni che fanno sognare: la sola presenza di una chitarra acustica avvolta da effetti sonori fantascientifici (astronavi, Ufo, raggi laser...) né fanno una delle più belle dell'intero album, con un testo semplice ma geniale. Anche questa ben presto finita nel dimenticatoio. 4) "Faccio Il Militare", canzone che tratta il tema della guerra con un'ironia unica, quasi di denuncia ("Non Siamo Mica Americani...."). Come la traccia precedente è composta da sola chitarra e effetti sonori, stavolta di bombe e carri armati in movimento. Un'altra grande perla dell'album. 5) "La Strega" è una canzone molto rockeggiante, con un testo divertente e un Vasco in perfetta forma. Infatti più volte in futuro riproporrà questa hit dal vivo, ma l'energia e la grinta non saranno più le stesse di questi anni. Peccato!. 6) "Albachiara" ha bisogno di poche presentazioni: la ballad più famosa della musica italiana. Anche se non è proprio sua, non si tratta di una canzone di Vasco ma....è "La Canzone Di Vasco". Ha sempre chiuso i concerti fino alla fine arrivando addirittura oltre i sette minuti. Grandioso l'assolo finale e la voce calda di Vasco che riempie l'atmosfera come in un sogno. 7) "Quindici Anni Fa" è forse quella che, sul punto di vista musicale, è la più complessa, perché mischia voce, chitarre, basso e batteria anche ad altri strumenti come le tastiere, sax e sintetizzatore, che ci porta in una magica atmosfera molto progressive stile Genesis. Il testo poi, sulla religione, è la ciliegina sulla torta. Perfetta! 8) "Va Be' (Se Proprio Te Lo Devo Dire)" è la traccia che chiude questo album. Nonostante non sia all'altezza delle altre, presenta un delizioso jazz swing che ne fanno una canzone molto gradevole, anche se il testo non è uno dei migliori del cantante. Il risultato è buono, anche se si poteva fare meglio.

In poche parole siamo di fronte al Vasco con la V maiuscola, quando ancora voleva comunicare per una generazione, quando sapeva rischiare, quando sapeva farti sognare. Peccato veramente che col tempo si perderà e riempirà gli stadi con gente desiderosi di sentire canzoni d'amore. Se siete grandi fan di Vasco, come me, ascoltatevi questo album per intero e scoprirete che il genio è nato proprio qui, con questo gioiello della musica italiana. Grazie di questo capolavoro Vasco. SEI MITICO!

P.S: Prima recensione, e ho voluto proprio esagerare! (sempre citando Vasco).
Review written by Antonio Lo Giudice for ondarock.it (July 8, 2012)
Con una buona dose di cinismo si può affermare che se, nel 1985, la cocaina avesse disgraziatamente causato la dipartita di Vasco Rossi al posto del suo arresto, oggi il rocker emiliano sarebbe incensato dagli stessi radical chic che fanno gara a buttare fango su di lui. Accanimento ingiusto, visto che se il Vasco odierno, bolso e nazional-popolare, è francamente imbarazzante (ma molto meno di altri idoli dell'italiano medio che, a differenza sua, o non hanno mai prodotto nulla di artisticamente significativo o, se lo hanno fatto, è stato per periodi molto brevi e con risultati decisamente inferiori - vedi Ligabue, prematuramente scomparso dopo tre album promettenti), quello a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta ha ridefinito sia il concetto di rock che di cantautorato italiano, regalandoci almeno cinque album-capolavoro e, volenti o nolenti, ha imposto un modo di scrivere e interpretare canzoni che è entrato nell'immaginario collettivo (meraviglie come "Albachiara" e "Vita spericolata" si possono solo fingere di non conoscere a memoria), oltre a essere stato un'influenza trasversale per un numero imprecisato di artisti pop e rock nostrani (cito a caso: Cccp, Tre Allegri Ragazzi Morti, 883, i Litfiba della gestione Pelù-Renzulli, Le Luci della Centrale Elettrica, Dente, Brunori Sas...).

Frutto anche lui del '77 emiliano, sarebbe, al pari di Gaznevada e Skiantos, una credibilissima colonna sonora dei fumetti di Andrea Pazienza - nelle sue canzoni c'è tutto lo scazzo post-ideologico di un Pentotal o di un Fiabeschi, anche se la sua ostentata fragilità lo tiene lontano dal cinismo alla Zanardi. Sempre per restare nell'ambito fumettistico (confronto pregnante, tenuto conto che il personaggio Vasco è stato il protagonista delle belle strisce di Massimo Cavezzali), la provincia tratteggiata nelle sue canzoni è estremamente simile alla fattoria McKenzie di Silver, seppur con la tara degli eccessi alcolici, psicotropici e sessuali assenti nelle vignette di Lupo Alberto.

Cinque capolavori, si diceva: tolto l'esordio in stile cantautorale di "...Ma cosa vuoi che sia una canzone" (da rivalutare, ma decisamente poco "stile Vasco"), si sarebbe potuto scegliere a caso tra "Non siamo mica gli americani", "Colpa d'Alfredo", "Siamo solo noi", "Vado al massimo" e "Bollicine" senza timore di sbagliare.
Alla fine prevale il disco del 1979 (stesso anno, guarda caso, di "America Goodbye" di Alberto Radius... ma, a differenza di quest'ultimo, gli Usa per Vasco non sono un oggetto di riflessione, ma un implicito metro di paragone per sottolineare le differenze con la provincia emiliana e, in generale, con l'Italia - "Non siamo mica gli americani", appunto! E, per questo il nostro rock non può che essere diverso), non solo perché è il primo in cui tutti gli elementi che hanno caratterizzato il sound e la filosofia del Nostro fanno la loro comparsa, ma anche perché contiene due immensi capolavori come "Fegato, fegato spappolato" e "Albachiara". Se gli si vuole trovare un difetto, sta negli arrangiamenti di Gaetano Curreri che stemperano in parte l'urgenza che invece troverà libero sfogo nei lavori successivi (in particolare "Colpa d'Alfredo" è un'opera punk fino al midollo, persino in ballate come "Anima fragile" e "Tropico del Cancro" o in rockettini apparentemente innocui come "Non l'hai mica capito").

Il primo brano si apre con un arpeggio che lascerebbe intuire una continuità con lo stile battistiano dell'esordio; tuttavia, dopo circa un minuto, "Io non so più cosa fare" scarta nettamente in territori più rock, mentre il testo narra delle masturbazioni mentali dell'autore che, davanti alle esplicite avances della compagna, finge di dormire. Ed è chiarissimo all'ascoltatore che le sue pur spassose scuse ("magari è femminista/ e non vuol farsi certo violentare/ ma vuole gestire") nascondono, nella migliore delle ipotesi, pigrizia, nella peggiore insicurezza sui propri mezzi. Emergono già da questo brano molte delle sue caratteristiche stilistiche (il cantato/parlato slegato dal ritmo à-la Jannacci, l'andamento alcolico e ricco di intercalari, il raccontare vicende personali per comunicare qualcosa di, quantomeno, generazionale) e tematiche (la lotta tra sessi nella quale l'uomo, inevitabilmente, soccombe o comunque ne esce in maniera pessima: Vasco Rossi è un rocker italiano che, contrariamente ai clichè su rocker e italiani, rifugge ogni forma di machismo e racconta le proprie debolezze con una sincerità assolutamente priva di retorica).
"Fegato, fegato spappolato" andrebbe tramandata ai posteri come istantanea della gioventù italiana sul finire degli anni 70 (quando i movimenti giovanili erano affogati nel sangue della repressione poliziesca e del terrorismo). Senza nulla in cui credere, non restano che l'alienazione e l'alcol, ammesso e non concesso che quest'ultimo sia peggio dell'ideologia. Dieci anni dopo i Cccp canteranno "Tedio domenicale/ quanta droga consuma" con in testa questa canzone. Quello che, tuttavia, mancherà al gruppo di Giovanni Lindo Ferretti rispetto al loro antesignano di Zocca sarà l'ironia leggera e la felicità narrativa che gli ha permesso di tratteggiare questo bozzetto di vita provinciale su un indiavolato ritmo funk-rock - con una citazione conclusiva di "God Save The Queen" dei Sex Pistols.

"Sballi ravvicinati del terzo tipo" e "(Per quello che ho da fare) faccio il militare" sono due ballate, entrambe giocate su voce, chitarra e pochi effetti, seppure antitetiche: la prima, psichedelica e sognante, nasconde dietro al tema fantascientifico una toccante dichiarazione di ateismo (punto sul quale Vasco è sempre stato coerente - il che, coi tempi che corrono, suona quasi rivoluzionario), la seconda, invece, è semplicemente la migliore canzone che sia stata scritta sul tema del servizio militare: al posto del vittimismo generalmente utilizzato (si pensi alle canzoni dei Litfiba sull'argomento) il Nostro gioca la carta dell'umorismo goliardico, perfetto per descrivere quel teatrino dell'assurdo che, sotto una pretesa di seriosità, era la leva obbligatoria ("ma non ci si può rilassare/ i russi possono arrivare ognora/ e se ci portano via le armi come la facciamo la guerra, dimmi, coi bastoni?!") e con quel titolo geniale ci spiega che, in fondo, la vita fuori dalla caserma non doveva sembrargli meno strampalata.

La seconda facciata del 33 giri si apre con il rock danzereccio de "La Strega (la diva del sabato sera)": il brano, che si richiama al glam dei T. Rex a partire dall'utilizzo di una voce pigra e insinuante, parla di un'egocentrica zoccoletta di provincia e fa da perfetto contraltare alla successiva "Albachiara". Quest'ultima canzone andrebbe di diritto inserita tra le dieci più belle della musica italiana di sempre - e lasciamo stare il fatto che è troppo inflazionata e che il fan medio di Vasco ha fatto sempre l'impossibile per rendercela insopportabile. Si tratta di un acquerello che ritrae una ragazza timida e poco appariscente presa al fiorire della sua adolescenza. La narrazione - semplice e garbata (pure nel riferimento alla masturbazione) e, forse per questo, incredibilmente poetica - viene accompagnata in opposizione equilibrata da una ballata pianistica che, improvvisamente, lascia il posto a un rock pesante, con un riff che pare uscito dalla chitarra di Glenn Tipton (la circostanza che i Judas Priest fossero stati un'influenza per Vasco emergerà in maniera più esplicita da "Dimentichiamoci questa città" che richiama, al limiti del plagio, "Livin' After Midnight"). Il successo del brano, specie da quando comincerà a essere usato come pezzo di chiusura di tutti i concerti del Nostro, farà sì che l'intero album venga successivamente ristampato col titolo "Albachiara" (e con una copertina diversa, e più anonima, dell'originale).
"Qundici anni fa", altro rock da discoteca, è forse l'unico riempitivo del disco - seppure piacevole e con un'interessante coda progressiva - mentre la conclusiva "Vabbè, se proprio te lo devo dire" è un talking jazz in salsa dixieland e dal testo spiritoso che omaggia Enzo Jannacci (assieme a Lucio Battisti, la principale influenza italiana di Vasco).

Il disco farà di Vasco Rossi una figura di culto della scena rock italiana, status che manterrà fino al grande successo della seconda metà degli anni 80. Successo, che, va detto, è stato sempre coerentemente cercato e il suo raggiungimento è dovuto a una serie di album dall'indiscutibile valore artistico. Che poi lo stesso sia stato cementato e accresciuto con opere via via sempre più mediocri, fino all'imbarazzante presente, non toglie nulla alla grandezza che il personaggio ha avuto.
Review written by Patrizio Ruviglioni for rollingstone.it (September 20, 2019 at 14:10)
Non siamo mica gli americani!, il secondo album di Vasco Rossi che nel 2019 spegne quaranta candeline, e da oggi è celebrato con un cofanetto per collezionisti, ha una storia emblematica. Non so con quanti altri dischi la condivida, credo pochissimi, ma il fatto è che col tempo ha cambiato titolo in quello alternativo di Albachiara – tutt’ora si chiama così anche su Spotify. Questo perché contiene il singolone omonimo, ignorato nel 1979 e poi detonato: una parabola che ne ha giustificato lo switch, per “renderlo più riconoscibile”. Insomma: almeno adesso per tutti è immediatamente “il disco di ‘Albachiara’”, no?

Ma è una storia emblematica, dicevamo, perché spiega quanto sia un lavoro ancora incompreso per l’impatto avuto sulla nostra musica. Il punto del discorso, infatti, non è la sola Albachiara: è uno dei pezzi italiani più iconici, certo, e probabilmente l’unico di questa serie con una dimensione – a suo modo – eterna; ma è comunque una delle sfaccettature del disco, in un puzzle più ampio di cui il “respiri piano per non far rumore” è complementare, ma non esemplificativo – non un parafulmine, ecco. Non siamo mica gli americani! significa piuttosto un’altra cosa: riportarci coi piedi per terra, rispondere all’ansia di internazionalizzazione. Ovvero: raccontare per la prima volta la provincia, le sue consonanze e le sue frustrazioni. Riprogettare le carte geografiche, prendersi altri riferimenti. E sì: davvero, per la prima volta in Italia. Se poi suonano famigliari – provincia, e relativi cliché – è perché dopo sono diventati un topos della nostra canzone; ma è qui – in questo disco, quarant’anni fa – il motore originale.

Chiaro, anche musicalmente l’album è un passo avanti dall’esordio di …ma cosa vuoi che sia una canzone?: il Blasco è ancora un cantautore vergine di hard-rock, ma inizia a porsi già di molto sopra le righe. E se al primo giro aveva abbracciato un format standard per i Settanta (chitarra, voce, tastiere e poco altro), ora sperimenta: scazzi di elettronica, citazioni dei Sex Pistols, contrabbassi impazziti, parole sussurrate, urlacci e versetti, oltre alle chitarre elegantissime di Maurizio Solieri e agli arrangiamenti di Gaetano Curreri – un arcitaliano dei suoni. Eppure, nonostante ciò, lo scarto vero lo segnano i testi. Perché dove vive Vasco non è (appunto) l’America, e nemmeno la Roma di Venditti e De Gregori, ma l’hinterland modenese in cui lui è il reietto, il tossico, l’incompreso. Una sorta di Bukowski minore, ma molto più umano e italiano. E provinciale. Le storie sono infatti altre – quelle dei bar della noia e i vicoli della droga – ed è grazie a esse che lui compirà il primo, grande balzo in avanti della sua carriera. Sul piano narrativo, ma anche estetico, tanto che l’Italia prima assisterà perplessa, e poi lo seguirà.

Quindi sì: il Blasco del 1979 è sicuramente il Blasco di Albachiara, che comunque in questa versione originale sgangherata nell’arrangiamento è più un quadretto allucinato da cameretta che un ballata da stadio, con quella poetica umile che inizia a trovare una dimensione sua. Ma è soprattutto quello di Fegato, fegato spappolato, un cult che racconta un quotidiano di abitudini da “paese” grottesco e misero, fra vizi e pregiudizi, siringhe e scarpe bucate, case e chiese. Comune, sarcastico, scorrettissimo. Oppure è i personaggi piccoli così de La strega (la diva del sabato sera), quasi una lotta fra pezzenti da locali dimenticati da dio, discoteche come cattedrali nella provincia più nera, dove non arriva la poesia del Lucio Dalla di Anna e Marco ma solo la spola per l’amore squallido e poco stilnovista di Va be’ (se proprio te lo devo dire), quasi una La nostra relazione 2.0. Senza stimoli quanto la vita di chi la vive, annoiata come le altre storie del disco.

Storie qualsiasi, dicevamo, firmate dallo stesso Vasco – alieno e drogato – che nel 1980 le sublimerà nella cavalcata da bar Colpa d’Alfredo, e nel 1981 nella generazionale Siamo solo noi. Storie tossiche, distopiche, senza finali, talmente microscopiche da essere ridicole ma già ribelli agli stilemi cantautorali. Già sfigate, già di provincia. Rock dentro, quando non ancora fuori. Basta prendere l’altro cult, (Per quello che ho da fare) faccio il militare, per capire: una follia di sussurri in cui il Nostro riprende la narrazione da outsider di Rino Gaetano (uno dei suoi padri più in mostra) e le svuota di ogni venatura sociale, settando uno storico inno anti-naja su un (brillante, va detto) discorso da quarto drink à la Piero Ciampi (altro riferimento imprescindibile). Disilluso, un po’ piacione, ma molto sincero e sperimentale nella struttura. Siamo nel 1979, ma questo nichilismo è già del 1985.

Inutile girarci intorno: su tutti, il merito di Non siamo mica gli americani! è stato quello di aver introdotto la provincia nel nostro immaginario musicale. Con quella narrazione vivida, realistica, senza i contorni fosforescenti ma coi finali da perdenti. Dopo quest’album, tantissimi: dai CCCP nell’alternative agli 883 nel pop, da Vasco Brondi nell’indie ai Fine Before You Came nell’emo. Dalla Pordenone dei Tre allegri ragazzi morti alla provincia cronica dei Baustelle. E poi Calcutta, gli Zen Circus, Motta. Fino a diventare, la provincia, una costituente della nostra musica, uno stato dell’anima, un cliché. Fino persino ad annoiare, a essere troppa.

Ecco: se organizzassimo una playlist a tema, davvero, non finiremmo più, fra figliocci di Vasco e percorsi diversi. Ma in apertura, comunque, andrebbe di diritto una pioniera come Fegato, fegato spappolato, con le sue manie di persecuzione da paesello e il taglio realistico e scorretto. Con buona pace dell’eterna Albachiara.
Review written by Mattia Marzi for rockol.it (on September 27, 2019)
È impossibile raccontare "Non siamo mica gli americani" senza scadere del banale. Se non altro perché alla carriera di Vasco e alla sua discografia sono state dedicate negli anni le pagine di decine e decine di libri - per non parlare delle tante fanzine e dei numeri speciali delle riviste di musica, molti dei quali dati alle stampe due anni fa in occasione di Modena Park - che parlano inevitabilmente anche di questo disco, la cui storia è ampiamente nota agli appassionati. "Non siamo mica gli americani" non è solamente uno dei dischi-simbolo della discografia del rocker di Zocca, al pari di "Colpa d'Alfredo" e di "Bollicine", ma è anche a tutti gli effetti un classico della musica italiana.

Ora, a distanza di quarant'anni dalla sua prima pubblicazione, torna nei negozi in una speciale edizione da collezione per la serie celebrativa R> Play, un'iniziativa di Sony Legacy dedicata ai quarantesimi anniversari degli album di Vasco e inaugurata nel 2018 con la ripubblicazione di ".Ma cosa vuoi che sia una canzone.": pur non aggiungendo nulla di nuovo a quanto è stato già ampiamente scritto e raccontato, questa uscita è un bel modo per celebrare l'album che vide Vasco togliersi di dosso i panni del cantautore che aveva provato a indossare (comunque con credibilità) nel suo primo album per indossare quelli del "provocautore".

Nel 1979 l'età d'oro del cantautorato italiano si è già avviata alla sua conclusione. Con il loro tour congiunto, "Banana Republic", Dalla e De Gregori hanno riportato i cantautori negli stadi, sancendo però al tempo stesso la fine di una stagione. Che il pubblico desiderasse nuove sensazioni Vasco lo aveva già intuito pochi mesi dopo l'uscita di "...Ma cosa vuoi che sia una canzone...", quando era tornato in studio di registrazione per lavorare ad una serie di nuove canzoni che con quelle del suo album d'esordio avevano ben poco in comune, portando con sé una band composta da Gianemilio Tassoni (basso), Gaetano Curreri e Antonio Mancuso (tastiere), Giovanni Pezzoli (batteria), Maurizio Solieri e Massimo Riva (chitarre), Rudy Trevisi (sax) e Sandro Comini (trombone), oltre che il fonico Maurizio Biancani (oggi chiamato a curare il mastering delle canzoni per questa riedizione).

Se in ".

Ma cosa vuoi che sia una canzone." Rossi si era divertito a scimmiottare - ma a modo suo - il linguaggio dei principali cantautori italiani, ora intendeva portare la sua musica a un livello successivo. "Più vado avanti e più sento il bisogno di scrivere canzoni. Però adesso non mi interessa più dimostrare agli altri che anch'io so rivestire alcuni versi con qualche accordo. Ho voglia di comunicare sensazioni, credo di avere un discorso mio da portare avanti. Perciò chiedo solo che la gente mi ascolti, magari una sola volta, per far sì che ognuno possa decidere autonomamente se il mio è un discorso che lo interessa o no", avrebbe raccontato in un'intervista concessa alla rivista "Ciao 2001" nel settembre del 1979, pochi mesi dopo la pubblicazione di "Non siamo mica gli americani".

Come rivolgersi a quei ragazzi "senza santi né eroi" che, alle porte degli anni '80, delle tiretere e dei proclami dei cantautori non sapevano più cosa farsene? Semplice: raccontandogli verità. Ecco allora che il linguaggio di Vasco comincia a farsi diretto, duro, onesto. Sincero. I testi delle canzoni di "Non siamo mica gli americani", con tutti quei riferimenti agli sballi, alle notti sporche di provincia, ai piaceri effimeri, rappresentano le basi di quella mitologia rock che Rossi avrebbe continuato a raccontare con i suoi successivi lavori, da "Colpa d'Alfredo" a "C'è chi dice no" (il disco con il quale nel 1987 avrebbe chiuso la prima fase della sua carriera, quella più ribelle e tagliente, prima di aprire con "Liberi liberi" un nuovo capitolo, caratterizzato da una maggiore introspezione), passando per "Siamo solo noi", "Vado al massimo, "Bollicine" e "Cosa succede in città". Quella mitologia che nel giro di pochi anni gli avrebbe permesso di diventare il Re del Rock italiano.

Ci sono le incursioni nel teatro-canzoni di "Io non so più cosa fare", dell'irresistibile title track (sull'inutilità del servizio militare obbligatorio) e di "Va be' (se proprio te lo devo dire)", le atmosfere cinematografiche à la Spielberg di "Sballi ravvicinati del 3° tipo", la dance rock di "La strega (La diva del sabato sera).

Ma i pezzi forti del disco sono, come noto, "Fegato, fegato spappolato" e "Albachiara", diventati in modo diverso due cavalli di battaglia di Vasco. Nel primo, Rossi racconta con ironia e provocazione la noia della provincia, offrendo ai ventenni dell'epoca - assetati di appartenenze - un manifesto generazionale ("Con in bocca un gusto amaro che fa schifo / chissà cosa è stato, quello che ho bevuto / m'alzo dal letto e penso al povero / mio fegato, fegato, fegato spappolato"), ideale anticipazione di quello che sarebbero state per i suoi seguaci "Siamo solo noi" e "Vita spericolata". Con "Albachiara" (il cui successo inaspettato spinse i discografici a dare questo titolo alla ristampa del disco), invece, Vasco porta avanti la serie di ritratti femminili già inaugurata con "Silvia" e "Jenny è pazza", entrambe contenute nel suo album d'esordio, perfezionando lo stile che negli anni successivi gli avrebbe permesso di scrivere canzoni come "Toffee", "Brava Giulia", "Gabri" o "Sally".

L'edizione speciale di "Non siamo mica gli americani" per il quarantennale è disponibile in tre diverse versioni: cofanetto deluxe in edizione limitata e numerata, cd con libricino di 32 pagine e vinile 180 grammi. L'edizione deluxe include, oltre all'album originale a 33 giri da 180 grammi, al 45 giri "Albachiara/Fegato, fegato spappolato", al cd in versione vinyl replica e a una musicassetta, anche un libro di 112 pagine scritto dal giornalista Marco Mangiarotti, con molte foto e contenuti inediti che ricostruiscono l'atmosfera anarchica della sala di registrazione della Fonoprint di Bologna dove Vasco registrò il disco insieme ai suoi musicisti.
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