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Детали релиза : Lucio Battisti - Images (1977/2007) [FLAC (image + .cue)]

AlbumLucio Battisti - Images (1977/2007) [FLAC (image + .cue)]
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Lucio Battisti - Images (1977/2007) [FLAC (image + .cue)](кликните для просмотра полного изображения)
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Описание/Треклист
Artist: Lucio Battisti
Album: Images
Released: 1977/2007
Label: RCA Victor Records; Sorrisi E Canzoni TV; Sony BMG Music Entertainment (Italy) S.p.A.
Catalog #: LB 07 10
Genre: Rock; Pop; Europop; Folk Rock; Soft Rock; Folk, World, & Country; Funk / Soul; Chanson; Vocal
Country: Italy
Duration: 00:34:20

Tracklisting:

01. To Feel In Love [5:10]
02. A Song To Feel Alive [4:40]
03. The Only Thing I've Lost [5:02]
04. Keep On Cruising [4:37]
05. The Sun Song [5:18]
06. There's Never Been A Moment [4:48]
07. Only [4:47]
Info
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Review written by rafssru for debaser.it (on February 6th in the late afternoon)
Con questo disco Lucio tentò 45 anni fa l'avventura americana, un'esperienza infelice che, ufficialmente, non ebbe repliche. Lucio aveva già frequentato il Nuovo Continente quattro anni prima, ma il Sud America, e il risultato era stato il capolavoro "Anima latina", per chi scrive tra i quattro dischi del reatino a meritare le 5 stelle (oltre ai due del 1972 e "Don Giovanni").

Questa volta si trattò di tradurre l'album "Io tu noi tutti" fornendone una versione parziale di cinque pezzi su otto ed aggiungendo due classici del repertorio. Dal disco italiano vengono espunte "Linterprete di un film", che però sarà presa in considerazione come "Star in a film", "Ami ancora Elisa" e "Questione di cellule", ritenute dall'arrangiatore Mike Melvoin troppo "italiane". Del repertorio storico si scelgono, tra una selezione che prevedeva anche "Eppur mi son scordato di te" e "Il nostro caro angelo", "La canzone del sole", che diventa semplicemente "The sun song", e "Il mio canto libero", che viene tradotto però non alla lettera in "A song to feel alive". Il risultato, come detto, fu piuttosto deludente, con i due pezzi di repertorio che suonano già "antichi" e poco adatti ad un pubblico transoceanico. Tra le poche cose degne di nota figurano "To feel in love" e "Keep on cruising", più convincenti delle altre, l'una in senso romantico, l'altra in senso rock. Restano quindi le versioni inglesi di "Soli", "Ho un anno di più" e "Neanche un minuto di 'non amore'", che francamente non colpiscono e sembrano troppo calcificate sulle versioni italiane, senza offrire alcun nuovo spunto.

L'album passò praticamente inosservato negli States, e il mio giudizio è 2 stelle, unico caso per chi scrive nell'intera discografia battistiana insieme ad "E già", che quest'anno compie 40 anni. Lucio si metterà al lavoro due anni dopo per il corrispettivo inglese di "Una donna per amico", ottenendo risultati più convincenti come pronuncia e come tradizione dei brani. Tuttavia "Friends" sarà scoperto solo nel 1995 dal giornalista Tullio Lauro, in quanto nel 1979 rimase nel cassetto, stroncando sul nascere una ipotetica carriera internazionale di Lucio.
Review written by Fernando Rennis for sentireascoltare.com (on November 28, 2012)


«Lucio, vorrei sapere se ti senti originale»
«No, mi sento Lucio Battisti» (Speciale per voi, 2 giugno 1970).

Milano sonnecchiava all’alba di una mite giornata di ottobre. Quel 1978 non era in grado di voltare le spalle ai centoquaranta attentati che, in meno di un decennio, avevano plasmato uno dei periodi più oscuri del bel paese. Gli italiani reagivano agli anni di piombo ballando, sognando i figli delle stelle e lasciandosi cullare dalla febbre del sabato sera. In quella mattinata autunnale milanese, la tensione si era rintanata al civico otto di via Monte Nevoso. Il generale Dalla Chiesa aveva dato il via a un’operazione dei suoi carabinieri, il primo a essere arrestato, dopo appena essere uscito di casa, fu Lauro Azzolini. Subito dopo ci fu l’irruzione vera e propria al covo delle Brigate Rosse. La sorpresa degli agenti non era legata al ritrovamento di armi e di quarantanove pagine del cosiddetto Memoriale Moro; a stuzzicare la curiosità del nucleo dei carabinieri fu l’intera collezione di canzoni di un cantautore che non si era mai schierato politicamente.

«Io la musica la concepisco come un modo per potersi rinnovare, per trovare nuovi stimoli, da non diventare noioso, pesante da portare avanti» (Lucio Battisti)

Anzi, a più riprese, Lucio Battisti fu addirittura accusato di orbitare attorno a tutt’altra galassia, quella fascista, che sarebbe stata impressa, secondo alcuni, nell’immagine del «bosco di braccia tese» o della ragazza che rimane oltre cortina ne Le luci dell’est. L’inaspettata presenza dei dischi di Battisti tra quelle quattro mura è il segno tangibile della capacità di permeare il tessuto sociale italiano che il musicista di Poggio Bustone ha avuto durante la sua carriera. Come lui nessuno mai: chitarrista formidabile, polistrumentista, autore di brani che hanno scalato a più riprese le classifiche, interprete che ha saputo piegare la sua voce ruvida – concepita all’inizio come giustificazione dei no rifilati dalle varie etichette – ai versi di Mogol e Panella.

Battisti è un unicum del panorama musicale italiano. Riservato fino all’estremo (come Mina a un certo punto della sua carriera è letteralmente sparito dalle scene), acido e scontroso (basti pensare alla sua storica apparizione a Speciale per voi del 1970), sicuro di sé e delle sue capacità (“A Mauri’, nun me ferma più nessuno!”, confessò a Maurizio Vandelli dopo la sua esibizione al Cantagiro del 1968); in pochissimi hanno saputo rivoltare il canzoniere italiano rifiutando di recitare un ruolo. Se c’è però un pregio che più di tutti ha fatto brillare il cantautore laziale, è certamente la sua costante attenzione a quello che succedeva di là delle Alpi. Un orecchio teso che gli ha permesso di rimodulare i canoni del bel canto. Insomma, il perito elettrotecnico è riuscito a dare forma e sostanza a una formula che spesso funziona soltanto nella teoria: immergere il geometrico sound angloamericano nel calore melodico mediterraneo. Si tratta dello stile Battisti; un unico e inconfondibile caleidoscopio che, per parafrasare lo stesso musicista, è sempre di moda perché se infischia delle mode.

“A Mauri’, nun me ferma più nessuno!”

Si suole dividere la carriera di Battisti in due fasi, corrispondenti alle collaborazioni coi suoi due storici parolieri. La fase Mogol costruisce e consolida il mito, quella Panella consegna ai posteri un artista stanco di quel pop che lui stesso aveva standardizzato nei confini italici e desideroso di proseguire una sperimentazione che, in realtà, era già nei solchi degli album influenzati dall’America del Sud o dalla disco music. Tutto questo a testimonianza di come Lucio Battisti e la sua formula non hanno subito variazioni, semmai un costante aggiornamento durato quasi trent’anni (dal 1966 al 1994) che soltanto la sua morte prematura è riuscita a interrompere.

In Battisti, poi, il dualismo personaggio/persona non esiste. Lucio è così: prendere o lasciare. Le sue intuizioni creative sono pari alla sua morbosa sete di conoscenza, la sua consapevolezza artistica – maturata dalla dura disciplina – va di pari passo con la geniale sregolatezza dell’improvvisazione. Ci sono alcune istantanee che descrivono molto bene questi tratti del cantautore di Poggio Bustone.

Battisti /Morandi/ Leali

Ma quando il cantante muore nel 1998 l’ondata di commozione degli italiani è talmente potente che s’infrange contro lo stretto riserbo della famiglia Battisti. Così il mito diventa leggenda e se ne accorgono anche le nuove leve degli anni ’10 del Duemila, sancendo un interesse mai sopito verso l’autore di quei tre accordi che chiunque inizia a suonare la chitarra impara per primi. E negli anni in cui Giorgio Poi e Coma Cose attualizzano in maniere differenti l’eredità di Battisti, Spotify riesce, finalmente, nell’intento di avere almeno parte dei suoi album in catalogo. E fu così che l’artista di Poggio Bustone battè Tommaso Paradiso, nessuna sorpresa per un artista che, secondo David Bowie, era il miglior autore di canzoni al mondo insieme a Lou Reed.


Io vendo tutti i sogni miei: da Poggio Bustone a Milano

«Sì, ci sono delle cose mica male, però secondo me dovresti tornare tra un mese, due mesi, tre mesi» (Mogol).

La valigia di cartone, la chitarra, vestiti, spartiti e, soprattutto, gli indirizzi. Nella Cinquecento che parte da Poggio Bustone con destinazione Milano c’è tutto. Lucio ha ventidue anni e ha alle spalle una carriera da musicista che lo ha portato a suonare anche in Europa. Nelle orecchie le canzoni ascoltate in radio di Bob Dylan e Animals, negli occhi la speranza che quella lista di recapiti si trasformi in un elenco di provini. Siamo a metà degli anni Sessanta e il ragazzo ha un bisogno vitale di ascoltare nuovi suoni per provare quella sensazione che già si era scatenata alla visione di Bobby Solo a Sanremo, una “cosa nuova” per il chitarrista che si era già fatto le ossa con la popolare orchestra di Enrico Pianori e con I Campioni, la band che accompagnava Tony Dallara e che ha regalato a Battisti un’esperienza di due anni che alimenta in lui la consapevolezza di fondere immediatezza pop a sonorità angloamericane. Era arrivato il momento di provarci e non c’era modo migliore di trovarsi faccia a faccia con i discografici, suonare loro i suoi brani e incrociare le dita. Come dice Dino Meneghin: “Se vuoi andare a cento all’ora, devi stare a Milano”.

Lucio si stabilisce in via Foresta del Perdono, passa il 1965 a tirar giù canzoni e a cercare di fissare appuntamenti con i discografici. Nel febbraio di quell’anno conosce tra i corridoi di una delle tante case discografiche Christine Leroux, che rimane affascinata dalla voce del ragazzo ma reputa le sue parole piuttosto banali. Qui entra in gioco Mogol, che cassa il giovane consigliando di farsi vivo più in là. Battisti prende Rapetti in parola: nei mesi successivi busserà alla porta del paroliere ad ogni nuovo brano composto. All’ennesimo “ci risentiremo”, il ragazzo si congeda con un riservato “Non si preoccupi, arrivederci”, ma, ormai alle scale, viene fermato dalla segretaria di Mogol. Evidentemente, il sagace Giulio aveva avuto la sensazione di poter perdere un treno importante, quello che lasciava intravedere nei due abbozzi suonati a casa sua da Battisti un margine di possibilità. È grazie alle strimpellate di Dolce di giorno e Per una lira che nasce uno dei connubi più prolifici della musica leggera italiana.

Battisti 2

Da un lato la musica, le intuizioni e gli ascolti internazionali di Lucio Battisti, dall’altra le istantanee di vita quotidiana e le pene d’amore di Mogol. Sul piano tematico, è opportuno soffermarci sull’analisi di Luigi Manconi, che sottolinea una dimensione “sentimental-kitch” scaturita dalle canzoni firmate dal duo. Una condizione scaturita dal rifiuto dei due di trattare temi che non rientrassero nella sfera erotico-sentimentale, tagliando fuori il caso e i turbamenti della seconda metà del Novecento italiano. Proprio per questo, le canzoni di Battisti–Mogol segnano una via di fuga; il loro mondo “appariva tanto lontano quanto attraente, tanto estraneo quanto desiderabile, tanto singolare quanto necessario”. Come dire; la mattina in piazza a tirar le molotov, la sera a canticchiar La canzone del sole.

L’anno successivo le canzoni del duo cominciano a circolare: Se rimani con me (prima canzone firmata da Battisti a essere pubblicata) è incisa dai Dik Dik, Per una lira dai Ribelli. Il 1966 è l’anno che sancisce anche il debutto solista del cantautore di Poggio Bustone: a luglio esce il primo 45 giri che contiene Per una lira sul lato A e Dolce di giorno sul lato B. Il duo ha bisogno di capire cosa succede nei centri nevralgici del pop internazionale ed eccoli a Londra a parlare con l’impresario dei Beatles e frequentare i locali del jet set. Lucio raccoglie informazioni e le rielabora in studio, pensa solo alla musica; ascolta l’impossibile e lo filtra attraverso il suo gusto. Quando era in tour per l’Europa con I Campioni, si era messo a saccheggiare col collega Roby Matano i negozi di dischi olandesi e tedeschi, ben più forniti di quelli italiani, e si narra che piratava canzoni che difficilmente sarebbero arrivata in Italia grazie al suo registratore a cassette. Serve, però, il singolo: una canzone che faccia esplodere i juke box, che spopoli nelle radio e che sia sulla bocca di tutti. Arriva nella primavera del 1967, ma ha il sapore d’autunno. Parte in un’atmosfera sospesa, per poi cambiare accordi e ritmo. S’intitola 29 settembre e viene affidata all’Equipe 84.

Da un lato la musica, le intuizioni e gli ascolti internazionali di Lucio Battisti, dall’altra le istantanee di vita quotidiana e le pene d’amore di Mogol.

Arriva, poi, Balla Linda cantata dallo stesso Battisti. Si tratta di una canzone piuttosto lineare che, però, è cruciale perché la sua popolarità rende la voce di Lucio, bistrattata dai discografici perché roca, strana e non convenzionale, familiare agli italiani. E poi scala le classifiche, fa incetta di premi e arriva fino al Festivalbar e oltre: precisamente, in America dove è incisa dai Grassroots. Battisti incassa e va avanti, con le idee sempre chiare. Eccolo intento a spiegare la sua formula: “Io vado da Mogol con la musica già fatta e sulla musica lui lavora. Il processo di comunicazione con la canzone è questo: musica che è un linguaggio non accessibile a tutti, appunto perché musicale. Secondo la mia teoria, le parole sono l’intermediario fra la musica e il grosso pubblico”. Battisti biascica una melodia in fake english e Mogol incasella l’italiano nella catena vocale. A volte i due hanno in mente lo stesso soggetto evocato dalla musica, altre volte il paroliere deve fare voli pindarici per negoziare significato e suono dei vari vocaboli. Il duo si fonda, quindi, su di una intesa solida, lo stesso Battisti confessa: “Lo ammetto, la mia fortuna è stata quella di aver trovato un paroliere che capisce perfettamente il senso delle mie musiche”.

Ad ogni modo, la formula comincia a macinare brani: al Festival di Sanremo del 1969 Battisti partecipa col brano Un’avventura, canzone di rottura che guarda al rhythm and blues americano in stile Otis Redding. Il lato B di quel singolo fortunato è Non è Francesca, in cui archi e chitarra acustica (qualcuno ha detto Yesterday?) reggono la storia di un uomo che non accetta il tradimento, sensazione che sfocia nella negazione e in una lunga coda lisergicamente jazz, di cui Solventi evidenzia l’equilibrio tra radiofonia e sperimentazione che sfocia in un “pop intriso d’avanguardia”. I tempi sono maturi e nel marzo di quell’anno arriva il debutto: Lucio Battisti raccoglie i migliori brani scritti fin qui dal ventiseienne laziale e prepara la strada per il seguito, che vedrà la luce l’anno successivo.
Ieri era oggi, oggi e già domani: la consacrazione

«Ho rinunciato perché sono convinto che il mio genere non è adatto al baraccone festivaliero. Ho sentito le canzoni e mi son sentito rabbrividire. Più della metà sono state fatte a tavolino con ‘mascherone’, cioè il vecchio e orrendo sistema dei parolieri di trascrivere la musica coi numeri» (Lucio Battisti sul Festival di Sanremo del 1970).

Gli anni Settanta profumavano di futuro: volano i primi Boeing 747 e Concorde, a Osaka si tiene l’Expo 70, ma allo stesso tempo si aveva la sensazione che un’era stava per finire. Mentre i Beatles si sciolgono, incubi al napalm si levano dal Vietnam e i giovani cercano vie di fuga collettive come l’isola di Wight. Lucio Battisti entra nel nuovo decennio come un martello pneumatico. Prima di pubblicare il suo secondo album fonda l’etichetta Numero Uno, regala a Patty Pravo Il paradiso, alla Formula Tre Questo folle sentimento e ai Dik Dik Il vento.

È doveroso aprire una parentesi su due episodi emblematici di questi anni. La prima è una precisazione sul brano portato al successo da Nicoletta Strambelli, che sottolinea quanto il duo formato dall’autore e dal paroliere fosse inserito in una dimensione internazionale e riuscisse addirittura a ribaltare la prassi di importare successi provenienti dall’estero. La canzone, infatti, era stata affidata in un primo momento ad Ambra Borelli, meglio conosciuta come La Ragazza 77, e girata in seguito agli Amen Corner che registrarono la cover (If Paradise Is) Half As Nice, prodotta da Shel Talmy, e infine tornata in Italia incisa da Patty Pravo. Il secondo episodio riguarda il brano Senza luce, cover del classico A White Shade of Pale dei Procol Harum incisa dai Dik Dik. Se avessimo potuto partecipare alle sessioni di registrazione del singolo, avremmo visto un Battisti intento a sventolare un cartone davanti a agli altoparlanti dell’organo. A Milano l’Hammond (e l’intuizione di affiancarlo al Leslie) non era ancora arrivato, ecco quindi un metodo artigianale per riproporre proprio quel suono.

Il dinamismo frenetico di Lucio all’inizio degli anni Settanta non ha pause: Battisti compie col fido Mogol un viaggio a cavallo da Milano a Roma, scrive continuamente, legge Freud e Jung e cerca di difendersi dalle invettive del giovane pubblico a Speciale per voi di Renzo Arbore. In questa occasione pronuncia la frase «ma che impegnato. Io sono disimpegnato. Disi-tutto. Tranquillo proprio», una risposta che ha alimentato il mito di un Battisti addirittura fascista in un periodo in cui essere cantautore era ritenuto appannaggio della sinistra. Il 1970 è un anno importante perché inizia qui a prendere forma quella crepa tra Battisti e i mass media che lo porteranno a sparire dalla vita pubblica, ma lo è anche per la graduale attuazione di una scelta pratica e personale allo stesso tempo: abbandonare i concerti. Dopo dieci date, culminate con quella alla natia Poggio Bustone, il cantautore esprime il suo pensiero: «Io intendo seguire questa professione, intendo guadagnare, intendo divertirmi, intendo avere successo, ma intendo anche vivere». Discorso ineccepibile, soprattutto per uno che dalla Siae riceveva annualmente attorno al miliardo di vecchie lire in diritti d’autore. L’imponente introito è tutto merito delle vendite dei dischi, dei singoli e delle canzoni firmate per altri artisti. Ancora una volta (siamo nell’estate del 1970, con Fiori rosa, fiori di pesco vincitrice al Festivalbar), Battisti è presente nella Hit Parade con più di cinque canzoni tra quelle cantate da lui stesso e interpretate da altri.

Battisti /Mogol

A fine anno arriva Emozioni, il secondo album e il primo disco a raggiungere la vetta della classifica di vendite. Anche in questo caso si tratta di una raccolta di brani precedentemente pubblicati sotto forma di singolo. Scorrere la tracklist dell’album è come sfogliare un canzoniere della canzone leggera italiana: c’è l’intima titletrack, sorretta nella seconda parte da innesti orchestrali, e poi c’è il rock macchiato di rhythm and blues di stampo americano di Dieci ragazze e de Il tempo di morire (verbo che in più analisi sulla poetica Mogol/Battisti viene inteso come metafora dell’orgasmo), la dimensione epica di Mi ritorni in mente (modellata dai Love Affair col titolo Wake Me I Am Dreaming) e poi la già citata Non è Francesca, l’incedere che porta dal basso iniziale all’esplosivo “Presto presto!” di 7 e 40. Forse il picco interpretativo e di arrangiamento è, però, toccato da Fiori rosa, fiori di pesco; un’introduzione classica si riversa in un portamento ascendente, arricchito di archi e chitarre e ritmiche nevrotiche e… pause. Ripartenze. Urla disperate. Ral-len-ta-men-ti. Interpretazione e arrangiamento: è tutto compresso da 1’45” a 2’30”, ascoltare per credere.

Tutto questo è possibile soltanto grazie a un dream team. Se Battisti è l’allenatore/giocatore, Mogol è il fido scudiero e poi ci sono Detto Mariano e Gian Piero Reverberi agli arrangiamenti e, ancora, una folta schiera di musicisti che vanno da Demetrio Stratos (in questo caso alle tastiere) a Franz Di Cioccio, passando per Alberto Radius, Dario Baldan Bembo, Franco Mussida, Damiano Dattoli. Molti di questi personaggi si ritroveranno in Tutti insieme, spettacolo musicale ideato da Mogol trasmesso in Tv nel 1971. Cinquantuno minuti di riprese live in studio in cui canzoni di Battisti si alternano a quelle di altri autori e interpreti (Bruno Lauzi, Adriano Pappalardo) e a brani internazionali, come Le the Sunshine. Chicca reperibile in rete, la “battaglia” con Battisti e i percussionisti di Formula Tre, Pfm, Dik Dik e Flora Fauna e Cemento di dietro le rispettive batterie. Si tratta di amici e colleghi di Lucio, che nel frattempo era diventato anche produttore e continuava ad affrontare con pungente strafottenza stampa e interlocutori radiotelevisivi.
Perché non mi volete?: il peso dell’assenza e il numero uno

«L’abbiamo sempre saputo che non appena avessimo sbagliato, avremmo avuto tutti contro» (Lucio Battisti).

Le mutazioni artistiche e private di Lucio Battisti negli anni Settanta sono molteplici e piuttosto repentine. Il convulso decennio del compromesso storico si era aperto con la consacrazione dell’artista laziale e le prime avvisaglie di un allontanamento voluto da palchi e vita mondana, basti pensare che nel solo 1971 escono per Ricordi ben due album di Battisti: se Amore e non amore (tenuto ai box dall’etichetta per più mesi perché ostico all’ascolto; ci troviamo assoli chiamati dallo stesso Battisti e sessioni in presa diretta che hanno poco a che vedere con la commerciabilità, un gran bel azzardo) è un disco sperimentale con brani lunghi (la schizofrenica Dio mio no supera i sette minuti) e strumentali (la wertmulleriana Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi), Lucio Battisti Vol. 4 serve alla Ricordi per bilanciare la situazione. Quest’ultimo, infatti, presenta il vecchio metodo della raccolta di singoli fortunati già editi – tutto il secondo lato è l’ennesimo elenco di classici: Pensieri e parole, Mi ritorni in mente, Insieme a te sto bene, 29 settembre e Io vivrò (senza te).

Ad ogni modo, il Vol. 4 coincide con il termine del contratto discografico tra Battisti e la Ricordi. Così, il cantautore di Poggio Bustone e Mogol si possono dedicare alla loro Numero Uno, etichetta che da alle stampe uno dei singoli più fortunati. La canzone del sole catture melodie cangianti sulla stessa sequenza di tre accordi ripetuta per tutti i cinque minuti di durata e unisce tematiche ambientaliste al tema focale di Rapetti, quell’amore sezionato in ogni sua variante sin dai primi testi scaturiti dall’alchimia creativa tra Lucio e Giulio.

Battisti /Mina

Altro anno, altra coppia di album pubblicati. Nel 1972 tocca a Umanamente uomo: il sogno e Il mio canto libero, in mezzo la storica esibizione a Teatro 10 con Mina rimasta impressa per quei venti minuti di duetto intenso e per i tre minuti di applausi scroscianti del pubblico. Umanamente unisce grandi intuizioni pop a sperimentazione, ne Il mio canto libero rende visibile sin dalla copertina un certo bisogno che i Talking Heads sintetizzerebbero nel verso “Feet on the ground head in the sky”. C’è ancora l’amore come tema dominante, ma si parla anche del tempo che scorre, di “coraggio di vivere” e incominciano a fare capolino concetti più astratti, soprattutto dal punto di vista musicale. Nei dischi emergono echi kraut (Il fuoco) e blues (Confusione), brani strumentali (Umanamente uomo: il sogno) e strutturalmente complessi (Gente per bene e gente per male). Ovviamente, non mancano le canzoni figlie della formula Battisti: I giardini di marzo, Innocenti evasioni, Il mio canto libero, Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi, E penso a te. Grandi melodie, orchestrazioni emotive, cori e dinamiche ascendenti e discendenti regalano al pubblico un altro campionario di quelli che i critici di un tempo chiamerebbero evergreen.

Nel frattempo la Numero Uno non naviga in buone acque, molti colleghi di Battisti scelgono altre strade e il nostro continua ad avvertire il bisogno di isolamento. Lo si percepisce quando, durante una puntata di Gran varietà, risponde alle domande di Raffaella Carrà per ben quattro volte con la solita laconica frase: «Magari passerei subito alla canzone». Lo si potrebbe immaginare schivo a far compere per il bambino che ha avuto con la sua Grazia Letizia o prendere l’aereo per un viavai tra Italia e Stati Uniti con l’intento di capire meglio da vicino come funziona un’industria musicale così imponente. È il 1973 e, mentre la Numero Uno è acquisita dalla Rca, Lucio Battisti pubblica un disco più rock ed essenziale, missato ad Abbey Road e reso più internazionale dall’uso, ancora non decisivo, dei synth.

Il nostro caro angelo inveisce contro il consumismo (nel rock della frammentaria Ma è un canto brasileiro che viene interrotta da intermezzi mariachi), si rifugia in tribalismi esotici che sembrano anticipare scenari futuri (La canzone della terra), spiazza quando si concede alle suite (Questo inferno rosa) o ai finali jazz (in Gli ho detto no, che probabilmente racconta la storia di un bisessuale in un periodo certamente non progressista). Tutto questo a dimostrare un periodo più “filosofico”, per dirla con le parole di Renzo Stefanel, che nel revival battistiano sarà difficilmente equiparabile per facilità di fruizione alle annate 1968/1971 e 1976/1980.

Battisti /Piscina

A metà degli anni Settanta Lucio Battisti si sente pienamente cittadino del mondo: viaggia in America (settentrionale e meridionale), in Svizzera, a Londra (dove studia addirittura matematica all’Università) e tutto questo si riflette nel suo quotidiano e, soprattutto, nella sua parabola artistica.
Orizzonti più vasti: world music, disco, il Sud e il Nord America

«È necessario non confondere l’uomo, pieno di debolezze, con l’artista che deve essere perfetto, infallibile» (Lucio Battisti).

A metà degli anni Settanta in Italia tirava un’aria pesante; era tempo di Brigate rosse, referendum sul divorzio, leggi sul finanziamento pubblico ai partiti e inchieste sullo stragismo. Era il periodo dei processi pubblici ai cantautori (famosissimo quello a De Gregori inscenato al Palalido), dell’illusione di libertà finita a brandelli nel festival Re Nudo al Parco Lambro (dove, per l’Espresso, “finì il futuro”) e dello stallo dei grandi concerti, troppo pericolosi in tempo di minacce terroristiche. Quest’ultimo avvenimento comportò due fenomeni: lo spostamento dei cantautori in ambienti più grandi, con la necessità di band di supporto (vedi De André e la Pfm, per citare solo un esempio) e l’assenza per molti anni di star internazionali sul territorio italiano. Sarà Bob Marley nel 1980 a sancire l’interruzione dell’embargo e la ripresa di influenze culturali che, nel breve tempo, porteranno alla ribalta il reggae di … E la luna bussò o di Vado al massimo.

Avevamo lasciato un Lucio Battisti intento a girare per il mondo ed eccolo, infatti, col fido Mogol a vivere per diverse settimane in Brasile e chiudersi per sei mesi in sala d’incisione. Il risultato è una delle pietre miliari della storia della canzone italiana. Un disco che sconvolse Bruno Lauzi, lui che era così innamorato della musica brasiliana e amico di Vinicius De Moraes. Anima latina è un punto di non ritorno, «un’operazione culturale, quasi un esperimento, e tale dovrà restare» come lo stesso Battisti confessò a Renato Marengo. La voce è defilata, cambiamento fondamentale nel rapporto artistico e umano con Rapetti: è intorbidita con riverberi e delay, sovrastata dagli strumentali e slegata da tutto ciò che fino a quel momento era il formato canzone così ben conosciuto dal laziale.

Anima latina

Stefanel trova nell’iniziale Abbracciala abbraciali abbracciali addirittura un’avvisaglia di trip hop, vero è che l’album si apre con sette minuti di esotismo, cambi di atmosfere e una difficoltà di permeare la musica che da un lato necessita una presenza attiva dell’ascoltatore, dall’altro attira critiche piuttosto negative (“non c’è musica”, “manca l’emozione”), mitigate dall’enorme processo di rivalutazione che negli anni investirà Anima latina. La verità è che il disco è un atto di fiducia; quello di Battisti nei confronti di chi realmente vuole scoprire la sua arte e quello dell’ascoltatore che, dopo anni di canzoni di qualità di musica leggera, adesso può andare oltre. Questo significa imbattersi nella caleidoscopica Due mondi e nella sua ripresa affidata al pianoforte oppure la frammentaria Gli uomini celesti e il suo frenetico reprise, anch’esso infarcito di piccoli trucchi da studio.

Perno di un album che nel tempo influenzerà gruppi che vanno dai Verdena ai Coma cose, è la title track. Anima latina è una gemma di inestimabile valore, un labirinto emotivo e geografico che sorvola Brasile, Argentina, spiagge lambite dal sole e foreste ombrose. Tutto racchiuso in poco più di sei minuti, presi a pretesto da Mogol per esprimere un contrasto tra la purezza del Sudamerica e un antiamericanismo convinto. E poi c’è la sperimentazione de Il salame, il tropicalismo di La nuova America e Macchina del tempo che gioca di sponda rincorrendosi reciprocamente nei finali con la titletrack. Mentre in Italia imperversa il prog, che pesca a piene mani dal mondo anglosassone, Battisti sceglie di piegare i suoi stilemi ai ritmi latini, andando oltre il pop e facendo suo un concettualismo mai fine a se stesso.

Il disco è un atto di fiducia; quello di Battisti nei confronti di chi realmente vuole scoprire la sua arte e quello dell’ascoltatore che, dopo anni di canzoni di qualità di musica leggera, adesso può andare oltre.

Il Battisti di Anima latina è grato al Sudamerica perché lo ha “scosso da certi torpori”, convincendolo ad apportare una sorta di “demitizzazione” della personalità. Si tratta di una spersonalizzazione che riduce i convenevoli e rende la voce un’evocazione, un’opportunità più che una certezza su cui tessere lo strumentale. Ma il Lucio post-Anima latina deve affrontare un periodo piuttosto burrascoso e caotico. Mentre il prog esauriva la sua spinta e la disco music cominciava ad affascinare artisti come David Bowie, Battisti e il suo entourage continuavano la peregrinazione attraverso il mondo. California, Nuova Zelanda e Australia non sortirono lo stesso effetto di Brasile e Argentina, sarà anche per questo motivo che Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera abbandona la sperimentazione per un ritorno ad atmosfere più familiari.

L’album esce nel 1976, dopo una gestazione piuttosto travagliata. La sua pietra miliare è certamente Ancora tu, il brano è influenzato dalla disco music, rimette al centro la voce ma abbandona i melodismi del passato. La canzone ebbe un successo incredibile, che non si spense nel tempo. Eppure, il decimo disco di Battisti fu criticato per la sua commerciabilità, nonostante le sue trentasei settimane di permanenza in classifica, dove arrivò fino al terzo posto, meglio dell’ottavo di Anima latina. Al di là del successo, però, Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera non lascia in eredità brani indimenticabili. A eccezione di Ancora tu (che gode delle parti di chitarra suonate da Ivan Graziani), abbiamo cover di brani già pubblicati (La compagnia) e canzoni ancora legate al precedente album (come Respirando e Io ti venderei).

Battisti /Batteria

Rotture, quindi. Proprio come nel caso del successivo Io tu noi tutti, come sottolinea lo stesso Battisti quando spiega di volersi “inserire” in un sound più internazionale senza perdere le proprie radici. Il disco dell’artista risente effettivamente di una pulizia sonora dettata dalle esigenze radio friendly statunitensi, dove è stato in parte registrato con il contributo fondamentale del produttore Bones Howe e del tastierista Mike Melvoin. Anche Mogol fa pulizia e snellisce le ambizioni filosofiche già ridimensionate ne La batteria… focalizzandosi nel quotidiano di protagonisti borghesi intenti a confessare le proprie riflessioni sulla vita. Dal punto di vista sonoro, svetta Amarsi un po’ che apre l’album con un basso pulsante e incisivo. La canzone rappresenta il nuovo corso di un Battisti maturo e sicuro di sé. Sì, viaggiare è deliziosa nei fraseggi di chitarra e tastiera che si rincorrono in zona ritornello, Soli gigioneggia con dilatazioni ritmiche e Neanche un minuto di non amore ribadisce il sapore internazionale dell’album.

Un gusto talmente accattivante che lo stesso anno (1977) esce per il mercato americano Images, una raccolta di alcuni brani di Battisti confezionati per il mercato a stelle e strisce. Si tratta del primo passo falso del duo formato da Lucio e Mogol. Nonostante i quattrocento milioni di lire spesi, l’album non fa breccia negli Stati Uniti: la scelta di tradurre testi letteralmente, la pronuncia incerta e il “fraseggio musicale squadrato” fanno naufragare l’operazione. Non tutti i mali vengono per nuocere, per riprendersi Battisti si presenta tempo dopo da Mogol con cinquanta canzoni. Le otto selezionate andranno a far parte di Una donna per amico.
Lo so divento antipatico, ma è sempre meglio che ipocrita: donne, giorni noiosi, gli anni Ottanta e ognuno per la sua strada

«Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare con il pubblico solo per mezzo del suo lavoro» (Lucio Battisti).

Una donna per amico è l’ultimo disco di Battisti degli anni Settanta, Una giornata uggiosa il primo del decennio successivo. I due anni che intercorrono tra i due album segnano per sempre la carriera di Lucio e il rapporto con Mogol. Parliamo anche di due risultati opposti: il primo si rivela un grande successo commerciale, il secondo è anticipato da un singolo che per la prima volta non raggiunge il primo posto in classifica. Un evento. Ma andiamo con ordine: siamo nel 1978 e Battisti preferisce il Regno Unito agli Stati Uniti. Lo fa partendo dai musicisti e da quel Geoff Westley che aveva già lavorato con Bee Gees e Sweet, e che negli anni a venire avrebbe avuto terreno fertile presso gli artisti italiani. Anche Mogol ritrova spessore testuale, nel tentativo di continuare a scandagliare i rapporti d’amore e tutto quello che gravita attorno a essi.

Il risultato è un perfetto equilibrio tra il mondo anglosassone e quello mediterraneo, un calore sprigionato da geometrie sintetiche e pulsioni che uniscono disco e funky. Sì, parliamo di Una donna per amico e dei suoi passaggi di tonalità che si alternano in un continuum coinvolgente. Ma il discorso vale anche per l’agrodolce Prendila così (con un sax ad anticipare quegli anni Ottanta appostati dietro l’angolo), per la cavalcata di Nessun dolore (che sembra uscita dal musical Jesus Christ Superstar). Un po’ meno per il waltzer di Perchè no, ma certamente per il divertissement Al cinema o per i coretti esotici di Aver paura di innamorarsi troppo.

Un perfetto equilibrio tra il mondo anglosassone e quello mediterraneo, un calore sprigionato da geometrie sintetiche e pulsioni che uniscono disco e funky.

Già, l’amore: Mogol viveva una crisi d’ispirazione. Stefanel riassume molto bene le sfere concettuali in cui si diramava il macrotema di Rapetti: “incomunicabilità, commedia d’amore, la gelosia rovinosa”. Al momento no del paroliere corrisponde una vena creativa non particolarmente trafficata di Battisti, su tutto il peso degli arrangiamenti di Westley che questa volta non sono un toccasana. Una giornata uggiosa esce nel 1980 e segna la separazione della coppia più famosa della canzone leggera italiana. Mogol e Battisti scoppiano per mere divergenze di diritti Siae, col tempo Rapetti ha chiosato che si trattava di una questione di principio. All’artista di Poggio Bustone veniva corrisposto il doppio dei ricavi; la parsimonia di Battisti e la sua convinzione che le parole erano di minore importanza rispetto alla musica si scontravano con le richieste di Mogol. Quest’ultimo ha smentito la voce che parlava addirittura di un album scritto per corrispondenza, ma la verità è che Una giornata uggiosa presenta tutti i caratteri di una transizione.

Battisti /Una donna per amico

Stiamo sempre parlando di livelli qualitativi piuttosto alti; come si può non riconoscere una certa potenza evocativa nella frenetica Il monolocale, nella più rilassata Arrivederci a questa sera o nella coppia finale contrastiva costituita dall’irrequieta titletrack e dalla meditativa Con il nastro rosa. La pioggia in copertina di Una giornata uggiosa raccoglie forse l’animo di Battisti che in quel periodo completa quel percorso di riservatezza diventando assente. Sparisce in quel lungo finale sfumato del disco, come inghiottito dalla nebbia: «Il misantropo diventa fantasma», come scrive Umberto Piancatelli. Infatti, il nostro caro Lucio compra un banco di registrazione da trecento milioni di lire per lavorare da casa e conduce una vita monacale con moglie e figlio. Gode nel non essere riconosciuto per strada, non si cura di piacere come quando a un’adolescente che gli chiede un autografo risponde: «A ragazzi’, ma vaffanculo!».

Altro che rockstar. Se Battisti non compone fagocita il palinsesto televisivo o si dà al bricolage. Diventa intimo amico di Pappalardo, i due condividono la passione per l’attività fisica e per la pesca. Ama mangiare e bere del buon vino, studia e ottiene la patente nautica. E la musica? È sempre lì, ossessionante: Lucio compra strumenti, s’innamora dei Talking Heads ed è pronto a pubblicare il suo prossimo album; il secondo del decennio, il primo senza Mogol. E già…
E intanto aggiungi, tagli e sintetizzi: Velezia, Duchesca, l’elettronica dell’assenza

«Signori, io non so perché sto qua. Favve ascolta’ ‘st’elleppì è ‘na perdita di tempo. Non lo capirà nessuno di voi perché, ve lo dico con grande coscienza, è un lavoro che pe’ fallo c’abbiamo messo un anno, ma voi pe’ capillo ce ne vorrebbero dieci» (Lucio Battisti ai discografici Bmg presentando Oh! Era ora di Pappalardo).

Il 1982 per gli italiani rimarrà sempre l’anno dei Mondiali. Ma, in realtà, i caroselli si intrecciavano con la guerra delle Falkland, l’arrivo del Compact Disc, dell’Atari 2600 e del Commodore 64, le rivelazioni di Buscetta e lo scioglimento degli Abba. Un frullatore in cui finirà tutto e che sopravviverà con la doppia faccia dei favolosi/orribili anni Ottanta. I giornalisti italiani avevano tanto lavoro da sbrigare, ma uno degli obiettivi fondamentali era Lucio Battisti. In una società edonista che cominciava a preferire il contenitore al contenuto, non si poteva pensare di sparire. Peggio ancora se lo si faceva in aperto contrasto con i giornalisti. Questi ultimi hanno imbastito col tempo un vero e proprio inseguimento ossessivo e senza regole nei confronti del cantante di Poggio Bustone. Incursioni in sala parto, tentativi di rubare qualche scatto all’uscita di scuola: Battisti è terrorizzato da tutto questo a tal punto che, trovando sua moglie intenta a mostrare alcune foto che lo ritraevano a un’amica, s’infuria. D’altronde, l’aveva già anticipato: basta la musica, è tutto quello che da un certo in poi il mondo avrebbe avuto.

Battisti /E già

Prima del ritorno discografico, è in veste di produttore che Battisti fa capolino. Lo fa per Pappalardo, lavorando a Oh! Era ora; un disco “troppo avanti” per i discografici della Bmg, e non solo dal punto di vista musicale. Sentendo i testi che Pasquale Panella aveva composto per lui Battisti ci rimane secco. Gli chiede chi è e dove si fosse nascosto fino a quel momento quel paroliere che ama firmarsi sotto svariati come Vanera, Vanda Di Paolo e Duchesca. La bromance, però, non è ancora matura. I testi dell’album a cui Lucio Battisti sta lavorando in quel momento sono firmati dallo stesso cantautore e dalla moglie Grazia Letizia che, a proposito di nom de plume, compare sotto le mentite spoglie di Velezia.

Un progettista di musica che sa dove vuole andare e studia il modo migliore per arrivarci.

E già è un album particolare per molteplici ragioni. Gli unici legami col passato sono lo stesso Battisti e Greg Walsh, che qui si occupa della produzione, degli arrangiamenti e della basi elettroniche. Il disco, infatti, è pieno zeppo di drum machine e synth, e viene registrato in maniera eterodossa: prima le tracce vocali e poi tutto il resto. Questi in parte i motivi che rendono Battisti agli occhi di Walsh un “progettista di musica” che “sa dove vuole andare e studia il modo migliore per arrivarci”. Alla luce di quanto accaduto dopo Una giornata uggiosa, i verso che aprono E già sembrano essere allo stesso tempo un manifesto d’intenti e una considerazione su quanto accaduto:

Scrivi il tuo nome
su qualcosa che vale,
mostra a te stesso
che non sei un vegetale
e per provare che si può cambiare,
sposta il confine di ciò che è normale

Cambiamento, una nuova normalità, valore e il coraggio di rivendicare la propria identità. Tutto questo in un effluvio di suoni sintetici da cui emerge una voce cristallina. Qualità è la parola d’ordine, fomentata dagli impianti stereo che Battisti accumula e adora ascoltare. Non è un caso che tra i dodici brani del disco compaia anche Hi-Fi. E già è un album che racchiude tutto il Lucio di questi anni: il movimento (“Usa le gambe”), l’acqua (l’uso del Prophet o i vari effetti liquidi di Mistero), il lavoro in studio (“Questo è il momento più eccitante della creazione, i musicisti sono pronti i microfoni in posizione”) e il Windsurf windsurf. Ci sono confessioni esplicite e versi che alcuni insistono a ritorcere contro Mogol. Al primo caso appartengono parole chiare come:

Ho sempre amato Jagger e gli Stones
I Beatles un po’ meno insieme ai Beach Boys
Forse perché hanno il nome che comincia per B
Da Paul McCartney ho imparato a cantare
Da Ray Charles ad emozionare
Da Dylan a dire quello che mi pare

Riguardo all’ipotetica frecciata a Rapetti, il discorso si fa più velato. I versi sono sempre in prima persona e il tono è ancora sincero:

Io mi ero lasciato entusiasmare
da quel tipo di intellettuale appariscente
che in fondo in fondo non valeva niente
Una cosa che non so capire davvero

Quel che è certo è il livello comunicativo che cambia; lì dove Mogol indugiava a scandagliare il rapporto amoroso e lo inseriva anche in contesti lontani (l’ambientalismo di Acqua azzurra, acqua chiara si rispecchia nelle pene d’amore dei protagonisti), Battisti e sua moglie si concentrano su un quotidiano da vivere con libertà (“Un’altra vita, un altro stile”), sorpresa (“Ed invece stai fiorendo sempre più”) e lontano dalla retorica di Rapetti. L’uomo battistiano è indefinito perché, parafrasando la titletrack del disco, prova e riprova non fermandosi mai.

Battisti /Ciao 2001

E già tocca il primo posto in classifica nonostante il brusco cambiamento e l’aura di mistero che porta on sé. In primis la copertina, che ritrae la Cornovaglia, e poi l’outtake Girasole o le demo che negli anni successivi comparvero. La vita nuova di Lucio da Poggio Bustone è tutta da scrivere: tra il 1982 e il 1986, anno del suo album successivo, taglia di netto con gli amici del tempo (tra cui Pappalardo e Tozzi) e decide ti tornare a Milano. E già è l’ultimo album ad avere Battisti in copertina (anche si stratta di un particolare delle sue scarpe), il suo ermetismo si trasferirà anche nelle copertine delle sue successive opere. La prima di queste avrà come titolo il nome di un personaggio caro a Tirso De Molina, Molière e Mozart, e i testi di Panella che formerà col nostro la nuova coppia del connubio musica e parole fino al conclusivo Hegel del 1994.
Ah, come sono vivace, come uno che tace: Tenorio, apparenze e notti magiche

“In Italia ero arrivato al punto di poter fare un po’ tutto quello che volevo, musicalmente. Non avendo un elemento di sfida, un elemento di verifica, in qualche modo avrei potuto, sì, raggiungere degli spazi interessanti, ma nella maggior parte dei casi ero lì che mi sbrodolavo addosso” (Lucio Battisti).

Don Giovanni (1986) è una sorta di eterno ritorno: questa volta l’elettronica ritorna al futuro. Compaiono infatti qui melodie quasi sepolte appartenenti al “vecchio” Battisti. L’effetto generale rimane comunque straniante per i testi di Panella, la cui cifra stilistica fa perno su giochi di parole e calembour verbali disseminati lungo tutti i brani. Le canzoni questa volta sono otto e la distanza dal precedente disco ben quattro anni. Matematica singolare perché da qui fino alla fine della carriera di Battisti tutti gli album conterranno lo stesso numero di brani e saranno pubblicati a ventiquattro mesi di distanza. Comincia da qui anche la consuetudine di scegliere copertine minimali, prima con qualche abbozzo e poi, addirittura, con una sigla e, infine, con una solo lettera.

Don Giovanni sarà l’ultimo suo album a finire primo in classifica.

Un passato rivisto, quindi, è il fuoco di Don Giovanni, come si evince in Fatti un pianto dove sax, orchestrazioni, strati di voci, versi nonsense e incisi agrodolci (con tanto di “oh oh” a fungere da hook) si scontrano con suoni sintetici. Persino la sillabazione sbilenca non guasta, anche se rende i brani non certamente facili da canticchiare sottovoce. L’effetto straniante forse è figlio di una metodologia che ricorda la vecchia collaborazione con Mogol. Infatti, con Panella arrivano prima i suoi testi e poi Battisti ci ricama la musica attorno. In Don Giovanni però si fa alla vecchia maniera, segno di un ritorno rivitalizzato dalle suggestioni sonore internazionali. Madre pennuta funge da perno, con le atmosfere a ricordare Shock The Monkey di Peter Gabriel, uscita qualche anno prima, mentre la titletrack è una sinuosa canzone che culla l’ascoltatore e lo guida tra archi ed elettronica.

Questa commistione di classico e sperimentazione non sorprende se si pensa che in quello stesso periodo Franco Battiato cantava No time, no space e in Mondi lontanissimi apportava simili suggestioni ibride. Certo, parliamo di due tra gli artisti italiani più incisivi della nostra musica leggera. Tornando a Battisti, Don Giovanni sarà l’ultimo suo album a finire primo in classifica. I suoi sostenitori si dividono tra i molti che preferiscono la vecchia produzione e i pochi che difendono l’innovazione. La critica non sa che pesci prendere, mentre Panella gode di totale libertà creativa (si noti nella radiosa Equivoci amici le storpiature dei cognomi e le manipolazioni lessicali) e Battisti continua la sua vita privata interessandosi al giardinaggio, alla compilazione del 730, rifiutando nel contempo gli assegni in bianco di Rai e Mediaset che lo vorrebbero a tutti i costi tornare in Tv.

Battisti /L'apparenza

Don Giovanni era stato registrato tra Roma e Londra, con un team di una decina di persone, tra cui figurava il solito Greg Walsh. Il gruppo di lavoro è ulteriormente ridotto due anni dopo: per L’apparenza (1988) Battisti sceglie come nucleo compositivo i soli Robyn Smith (produttore, tastierista, arrangiatore e chitarrista), il chitarrista acustico Mitch Dalton e il direttore d’orchestra Gavyn Wright. Rimane, invece, il rapporto italo-britannico alla base dei luoghi di registrazione. L’apparenza – che si fermerà al secondo posto in classifica come picco – riprende il discorso del predente album e li avverte nelle melodie della titletrack.

Così, mentre a Sanremo vinceva Massimo Ranieri con Perdere l’amore, Battisti persiste a lavorare sulla sua personale ricerca, lontano da qualsiasi contaminazione da classifica e con l’occhio rivolto all’estero. Davvero in pochi in Italia avevano il coraggio di fare questo salto nel vuoto prima che diventasse un must anche nella nostra penisola. Oltre al già citato Battiato, c’erano stati i Matia Bazar con il loro classico elettrificato Vacanze romane (non lontano da Per nome presente in L’apparenza) a scombinare un pubblico ancora troppo legato al sentimento e ai rassicuranti stilemi raccolti nell’espressione “canzone italiana”.

Battisti è fedele solo a se stesso e L’apparenza suona imprevedibile e labirintico, perdendo un po’ della leggerezza del suo predecessore. Già nell’apertura di A portata di mano è percepibile come il rapporto con l’ascoltatore sia nettamente squilibrato, come dire: “Questo sono io, questo è quello che faccio. Scegli se seguirmi o demordere”. Ovviamente il discorso vale anche per Panella, che in Per altri motivi ammonisce: “‘Siamo nella preistoria’, ecco una frase che durerà”. Il paroliere è ancora una volta libero di esprimersi in tutta la sua libertà, soprattutto perché il suo ruolo tecnicamente finisce con la scrittura del testo. Non deve adattare alcun ritmo, accento o sillabazione. Tutto percepibile in questi versi di Allontanando:

Trasvola sopra l’ultima papilla la farfalla e la lingua la spilla
E ripeschiamo l’oh dello stupore col quale incorniciamo
Il fragile leggero di quel che non diciamo

Nel frattempo, un decennio è appena tramontato e un altro iniziato: siamo in quel 1990 fatto di notti magiche, Oscar a registi italiani e Uomini soli a Sanremo. Ancora una volta il mondo sta cambiando in fretta: apre il primo McDonald’s a Mosca, l’omosessualità viene eliminata dall’elenco delle malattie mentali e scoppia la Guerra del Golfo. Lucio Battisti è rintanato nel suo studio casalingo a trascrivere partiture e segnarsi i set per un suono da utilizzare. Conduce una vita routinaria che comprende tanta Tv e le notizie del Corriere della Sera. Proprio dove si perdono quegli uomini solitari, magari in cerca di una sposa…
Il posto è qui: Occidentalismi, ragazze e fenomenologie

Il Lucio Battisti da E già in poi è un artista focalizzato solo nel comporre e pubblicare in maniera metodica. Ha abbandonato concerti, interviste e vita pubblica per assecondare echi wave, synthpop ed elettronici. Gli anni Novanta segnano gli ultimi tre album della sua carriera, interrotta a causa della morte. Battisti, quindi, percorre una parabola piuttosto comune ad alcuni artisti: una fase “classica” che coincide con un grande successo, un secondo periodo sperimentale che mette a dura prova il pubblico e spiazza la critica, e una rivalutazione di quest’ultima parte con un ritardo considerevole. Per certi versi, Battisti aveva ragione quando spiegava ai discografici della Bmg la fatica che ci avrebbero messo a capire un album non convenzionale.

Gli ultimi tre capitoli della cosiddetta “discografia bianca” rispettano le tracklist e le cadenze sopracitate: otto canzoni a disco e due anni di distanza tra una pubblicazione e l’altra. Panella è la costante, insieme al nostro, che rappresenta il nucleo delle composizioni. Tutto il resto è di volta in volta messo in discussione. Parlare solo attraverso la musica; è proprio quello che fa Lucio di Poggio Bustone, il “perito industriale più ascoltato d’Italia” che non conosce compromessi ma si conosce molto bene, tanto da essere consapevole delle sue scelte e perseguire, caparbio, la sua strada.

Nel 1990 arriva La sposa occidentale e torna Walsh. Il risultato è un pop freddino, in cui fanno capolino riff di chitarra dal sapore anni Sessanta (Tu non ti pungi più), cavalcate sintetiche (nel caso della titletrack) e arrangiamenti che, spogliati dell’elettronica, rimandano a un passato classico melodico e armonico (come in Timida molto audace). A Panella l’arduo compito di “Cercare gli aggettivi catarinfrangenti, infanti e lucenti”. La sposa occidentale non va oltre la terza posizione in classifica, attestandosi a fine 1990 al trentaquattresimo posto. Ancora più giù (57° con una scalata arrestatasi al numero 5) finirà nel 1992 il successivo Csar. La Hit Parade è comandata dalle nuove leve Ramazzotti, Zucchero, Carboni e, ovviamente, Vasco Rossi ma è pronta a dare anche il bentornato ai più esperti Venditti, Dalla, Baglioni e una buona accoglienza a star internazionali come Madonna, Witney Houston e Queen.

Battisti /Bw

Lucio Battisti è un Zarathustra che non sente nostalgia dell’umanità. Il suo eremitismo ed ermetismo sono sacri: conta solo la musica. Potrebbe tornare con un pezzo da classifica da un momento all’altro, ma non lo fa. Ed è questo che, forse, in molti non gli perdonano. La sua odissea non li riporta a Itaca, una volta superate le colonne d’Ercole bisogna tirare ancora dritto. Conta solo la musica: la vita vissuta è roba privata. Vallo a dire ai giornalisti che continuano a cercare un’apparenza che non è mitigata da compromessi come pubblicità o canzoni prestate a campagne di marketing, che è il motivo per il quale Mina ci manca ma la “sentiamo” invecchiare con noi. Battisti fa quello che Tom Stoppard applica nella sua riduzione della morte: “E’ semplicemente un uomo che non riappare più, tutto qui”.

Gli ultimi due capitoli della carriera di Lucio Battisti sono Cosa succederà alla ragazza e Hegel. Il synthpop diviene technopop con ibridazioni funk, grazie all’apporto di Andy Duncan alla produzione. Quest’ultimo, per Csar si avvale soltanto di altri due musicisti: il tastierista Lyndon Connah e il “quinto Queen” Philip “Spike” Edney. Il penultimo album di Lucio Battisti prosegue sulla strada dei doppi sensi (Tutte le pompe) e suona tremendamente contemporaneo, se visto in un’ottica internazionale. Basta prendere a esempio gli attacchi della titletrack, La metro eccetera e I sacchi della posta; nulla da invidiare alle hit mondiali di Tlc, Kws e George Michael. Come scrive Solventi in sede di recensione, quelle di Csar sono «Canzoni che non smettono di germinare sensi rispetto ai propri tempi e che pure messe in prospettiva non scherzano affatto, continuando a ghignare il loro sberleffo pungente».

La sublimazione di queste atmosfere avviene in Hegel, in cui Panella gioca di riferimenti con il filosofo tedesco (Tubinga, Estetica o la stessa Hegel) e Battisti decide che il ritmo deve sovrastare la melodia. Siamo nel 1994: Berlusconi scende in politica e il mondo passa rapidamente dall’edonismo al rave, passando per grunge, brit pop e alternative. C’è almeno un altro artista al mondo che in quegli anni, pur concedendosi e apparendo, ha abbracciato la contemporaneità non rifugiandosi nel proprio passato glorioso. È quello stesso Bowie che non aveva risparmiato complimenti proprio a Battisti.

Battisti /Hegel

L’ultimo album di Lucio Battisti sfida l’emotività: esce per la Numero Uno ed è pubblicato il 29 settembre. In copertina una E, che alcuni hanno tentato di spiegare con l’iniziale di End (fine in inglese) mentre altri addirittura come l’elemento mancante della sigla del disco precedente (che da Csar diventerebbe Cesar). Su tutto vince l’inverosimile affermazione di Panella: “Non sapevo che Hegel si scrivesse con l’acca”. Scherzi a parte, Hegel suona contemporaneo e in parallelo torna al Battisti classico. Basta la sequenza di accordi discendente di Almeno all’inizio per carpire quanto piano sincronico e diacronico coincidano negli “occhi in prestito” e i “disimpegni” del testo.

In Hegel troviamo la britannia di Underworld, Happy Mondays e Bristol; ancora una volta in controtendenza in un paese che nel sottobosco flirtava col trip hop (vedi Almamegretta) e in classifica in questi anni mandava il rock di Gommalacca o quello dei Csi. Battisti è stato sempre un visionario e non si risparmia nemmeno in questo disco: la policroma Tubinga, la frenesia di Stanze come questa o l’RnB de La bellezza riunita sono schizzi pollockiani che assecondano l’estro del loro autore e le parole di Panella.

Un “maltrattamento della cultura” per alcuni questo Hegel, un disco che non potrà mai essere considerato al di fuori del suo essere epilogo di una discografia unica. Centocinquanta brani scritti con Mogol, quaranta con Panella; questa l’eredità ufficiale di Lucio. A metà degli anni Novanta, complice anche la rete, si susseguono voci e frammenti di inediti (i più famosi Il paradiso non è qui con Mogol e Gabbianone con Panella), demo e addirittura quello che sarebbe dovuto essere un album postumo.
Anche un sorriso può fare rumore

Io quel giorno me lo ricordo bene, nonostante avessi dieci anni. I Tg, gli speciali, il silenzio di mio padre. Il 9 settembre 1998 Lucio Battisti muore all’ospedale San Paolo di Milano, in seguito a un tumore. Giorni dopo il New York Times avrebbe riportato la notizia parlando di un artista – paragonato a Bob Dylan non per i messaggi politici, ma per aver “definito un’era” – la cui voce era paragonabile a una persona appena scesa dal letto e non ancora arrivata al caffè. A causa, soprattutto, della riservatezza che ha circondato Battisti negli ultimi anni della sua vita, l’opinione pubblica e la gente comune si aggrappa a tutto ciò che ha significato la musica del nostro e alla sua eredità.

Battisti /Primo piano

A ben guardare, potremmo dire “come lui nessuno, mai”. La sua consapevolezza che rasentava la presunzione, l’ossessione per il suono e gli arrangiamenti, così come l’umiltà di non saper scrivere testi al livello di Mogol prima e Panella poi, fanno di Lucio Battisti un modello con cui fare i conti. Lo sanno, ad esempio, gli Audio 2 e la sterminata schiera di professionisti e non che cantano le sue canzoni in Tv, nei pianobar, alle feste di piazza o strimpellando la chitarra quando si fa serata. L’impatto che ha avuto sul canzoniere italiano è stato portentoso, ha saputo svecchiare la canzone nostrana come solo Modugno e Celentano avevano osato prima e come Battiato si è arrischiato contestualmente a lui. C’è un prima e un dopo Battisti, così come c’è un prima e un dopo Beatles.

L’autore de La voce del padrone, quello di Prisencolinensinainciusol o l’interprete di Nel blu dipinto di blu hanno innovato per sound e approccio di cantare, scandalizzato per le spalle al pubblico e le braccia aperte. Battisti appartiene a questo gruppo di “prescelti”, ma si differenzia perché da Modugno e Celentano (e questo lo avvicina a Battiato) per la sua attenzione maniacale ai dettagli e la costante ricerca. Poi, be’: Franco è Franco, Lucio e Lucio: il primo è concettuale, il secondo smaccatamente nazionalpopolare, almeno fino a un certo punto. Non che i vari Dalla, Venditti o De André non abbiano inciso nella musica nostrana, anzi parliamo di mostri sacri che spesso hanno avuto riconoscimenti tardivi. Dal canto suo, Battisti ha mostrato un disinteresse a tutto ciò che non fosse musica al limite del misantropo. La sua è stata una missione e un costante processo di autoaffermazione.

Quando il 29 settembre 2019, dopo varie beghe legali, Lucio Battisti è finalmente sbarcato su Spotify l’accoglienza è stata trasversale, anche se si è trattato soltanto del catalogo relativo al periodo con Mogol. Lo stesso discorso vale per le ristampe e rimasterizzazioni dei suo dischi. L’eredità culturale di Battisti è al sicuro: negli anni le serate tributo in Tv, le compilation a lui dedicate e la rivalutazione della sua discografia bianca hanno garantito un passaparola intergenerazionale.

C’è poi un’aura di estrema sincerità nel personaggio e persona Battisti, che non a caso coincidono. Per lui non valeva l’espressione “the show must go on”, anzi: se non è più divertente, è meglio fermarsi. E poi il suo flop americano, le vendite in calo dei suoi ultimi album; tutto ciò che non è mistero sta sotto il sole, è cristallino come l’acqua. Non ha bisogno di occhiali da sole per “avere più carisma e sintomatico mistero”. Sarà anche per questo motivo che Lucio Battisti ha permeato ogni strato sociale: dal contadino al dirigente, passando per il borghese e militare, il prete e la prostituta. Giovani e meno giovani. Politici e rivoluzionari. Persino le Brigate Rosse.
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